Kenya, cosa c’è dietro il rischio di guerra civile
31 Dicembre 2007
Così vicino a noi italiani quanto
a gusti turistici, il Kenya ne è invece quanto mai alieno e perfino bizzarro
nelle sue indecifrabili rivalità politiche. Alchimie, comunque, abbastanza
corpose da innescare un principio di guerra civile in cui si è già ammucchiato
oltre un centinaio di cadaveri.
Tanto per dirne una, il nome dell’Orange Democratic Movement (Odm) di quel Raila Odinga che adesso ha
scatenato l’insurrezione accusando il presidente Mwai Kibaki di avergli
scippato la vittoria a colpi di brogli non significa in realtà “Movimento
Democratico Arancione” stile Rivoluzione Ucraina come viene ora tradotto in
italiano, ma proprio “Movimento Democratico dell’Arancia”. Nel senso che
l’Arancia e la Banana erano i contrassegni usati al referendum costituzionale
del 2005 per far capire anche agli analfabeti le due opzioni. Banana, uguale sì
a una riforma che minacciava le proprietà di stranieri e loro discendenti,
permetteva in compenso il possesso della terra alle donne, prometteva una
Commissione incaricata di procedere a una radicale riforma agraria, specificava
che la proprietà poteva essere “governativa, comunitaria o individuale”,
permetteva “tribunali religiosi” anche di fedi diverse rispetto a quelli
tradizionalmente concessi alla minoranza islamica, e soprattutto ampliava a
dismisura i poteri del Presidente. Arancia invece significava no.
Vinse l’Arancia, col 58,12%
contro il 41,88. E l’Odm si formò subito dopo appunto per capitalizzare un
risultato in cui erano confluti i motivi più eterogenei: da un voto di opinione
liberale timoroso di un’involuzione autoritaria ai timori dei proprietari
terrieri di origine europea o asiatica; dalle gelosie della comunità islamiche
per la perdita del monopolio sui tribunali religiosi all’avversione delle etnie
luo, kamba e masai per una
possibile centralizzazione di marca kikuyo.
Odinga, figlio del primo vice-presidente del Kenya indipendente, è infatti un luo della sud-occidentale provincia di
Nyanza, quella che si affaccia sul Lago Vittoria. Mentre è un kamba di quella Provincia Orientale che
in realtà sta al centro quel Kalonzo Musyoka che dopo aver litigato con Odinga
per ragioni personalistiche si è candidato con una frazione dell’Odm che per
distinguersi si è autodefinita “del Kenya” (Odm-K). I risultati ufficiali,
contestati da Odinga, danno a Kibaki 4.584.721 voti, pari al 46,38%, contro i 4.352.993
dello stesso Odinga, il 44,03%, e gli 879.903 di Kalonzo Musyoka, l’8,90%. Sia
Odinga che Musyoka sono stati votati in massa da quel 10% di musulmani che si
addensa soprattutto nelle due province Costiera (Sud-Est) e Nord-Orientale, e
che ce l’hanno con Kibaki per aver acconsentito ad estradare in Etiopia e a
Guantánamo alcuni islamici accusati di terrorismo. Tanto per complicare ancora
di più il quadro, si può aggiungere che Odinga, mobilitatosi contro la riforma
agraria e appoggiato dall’integralismo islamico, è figlio di un vecchio
socialista, è di fede anglicana; ha studiato nella ex-Germania Orientale; ha
chiamato un figlio Fidel in onore di Castro e una figlia Winnie come Winnie
Mandela; si proclama socialdemocratico; e si è affiliato per un po’
all’Internazionale Liberale.
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Kibaki è invece un kikuyu: etnia di maggioranza relativa,
col 22%, concentrata nelle Province Centrale e di Nairobi, e tradizionalmente
egemone anche in politica. Anche il padre della patria Jomo Kenyatta,
presidente dal 1964 al 1978, era un kikuyu.
Solo Daniel Arap Moi, tra i tre presidenti che il Kenya ha finora avuto, era di
un’altra etnia: la piccola tribù kalenjin.
Il bello è che Kibaki, oggi tacciato di aspirante dittatore, è stato in passato
un eroe della rivoluzione democratica che ha scosso l’Africa a partire dal
1989, sul modello dichiarato di quelle insurrezioni democratiche nel mondo
comunista da cui gli africani erano rimasti impressionati attraverso le
immagini dei telegiornali. Battezzato Emilio da missionari italiani, poi pezzo
grosso del partito unico di Kenyatta e Arap Moi fino ad arrivare alla
vicepresidenza, nel 1991 si mise subito in proprio al momento dell’avvento del
multipartitismo, fondando un Partito Democratico attorno a cui si coagulò prima
l’Alleanza Nazionale e poi quell’Alleanza Arcobaleno alla testa della quale nel
2002 stracciò il figlio di Kenyatta Uhuru per il 62% a 31, conquistando la
prima storica alternanza democratica nella storia del Paese. In quell’occasione
fu appoggiato anche da Odinga, che prima era finito in galera per cospirazione
contro Arap Moi, poi era stato nominato dallo stesso Arap Moi ministro
dell’Energia, e infine aveva rotto col pesidente definitivamente quando questi
gli aveva preferito come suo successore Uhuru Kenyatta. L’accordo era però che
si sarebbe fatta una riforma costituzionale per creare un posto da primo
ministro da dare allo stesso Odinga: motivo per cui quando vide che il testo proposto
al contrario i poteri presidenziali li rafforzava si mise alla testa delle
Arance, dimettendosi da ministro dei Lavori Pubblici. Ma anche le Banane si
sono nel frattempo raccolte in un Partito dell’Unità Nazionale (Pnu) in cui i
vecchi movimenti dell’opposizione democratiche si sono fusi con l’ex-partito
unico Kanu (Unione Nazionale Africana del Kenya) di Arap Moi e Uhuru Kenyatta.
Oggi i più stretti alleati di Kibaki.