La battaglia per la verità di un Bondi inedito ma non troppo

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La battaglia per la verità di un Bondi inedito ma non troppo

04 Novembre 2007

Le battaglie un uomo le combatte in molti modi. Sempre
insufficienti. Sempre strappate alla propria biografia. Non sempre efficaci. Ma
sempre battaglie. La vita è in se stessa un campo di battaglia, piaccia o non
piaccia. La parola si inscrive in questo disegno misterioso che non intende
recedere dal senso del mistero; la poesia è sommamente scommessa sulla parola
che chiama e richiama la verità della vita. Nella vita.

Sandro Bondi gioca
questa partita e scommette sulla parola. Certo, gli schemi dell’uomo pubblico,
secondo il fattore sociologico che addormenta la conoscenza viva dell’altro,
sono sempre in agguato e così, di fronte ai versi bellissimi dedicati al figlio
Francesco, certuni, stupiti dell’ardire, svicolano, infine negano a se stessi
la possibilità di conoscere l’ulteriorità di un altro mondo. “Perdonare Dio”,
il titolo dostoevskijano della raccolta di poesie di Sandro Bondi, giustifica
la ricerca del senso e Sandro insiste in questa ricerca, a dispetto di tutto e
di tutti, senza mai venir meno ad una radice di coerenza umile che, in questo
frangente, non posso che riaggiustare prossimamente all’ètimo di humus, terra.

Se la terra è abitata dagli uomini, allora un luogo cosiffatto può anche non
essere tutto paradiso, come neppure inferno e desolazione, terra desolata, come
nel primo Eliot. E allora cos’è? E’ lo stesso spazio in cui gli uomini, le
vicende, i personaggi del quotidiano, siano essi famosi o mister nessuno
(nell’ottica della società dello spettacolo, indecente ad oltranza e
necessaria, sia chiaro, non riesco a moraleggiare in nessuna età della vita),
Francesco, amatissimo figlio di un amore antico e tenacemente dedicato a Dio,
come Ferrara; chiunque qui trova luoghi di accoglienza e trame di vicinanza.

Sandro Bondi non ama la retorica e non cede alle lacrime, le piange tutte in
silenzio e la sua vita è infinitamente più scabrosamente vicina al ferro e al
fuoco di quanto i cosiddetti pragmatici riescano anche solo a sfiorare con
accenti mentali e griglie di umana conoscenza. Quel “Padre di tuo papà, come
sarà nel momento dell’addio” è l’uomo certo di quel che ha fatto e che
continuerà a fare, fino alla morte. Solo chi vive con il cuore impastatati di
eterno riesce anche a raccogliere i semi mondani come profezia di un domani
fatto per l’uomo. Il trasporto d’amore per ciò che occhio mai vide e orecchio
mai udì conduce l’uomo a saccheggiare la memoria, i tentativi di essere e le
resistenze passive alla chiamata ultima:

“Giunti al limitare del nulla

Che cosa resta del passato

Della vita vissuta

Dei momenti felici

Un piacere svanito

Una memoria infedele

Solo un pianto d’amore”

La chiave dell’esistenza non cerca la terra, si ritrova alle
spalle del futuro e di fronte a qualcosa che si annida altrove, se mistero
dovrà prima o poi essere, nel modo di ricercare degli uomini, allora esso non
potrà che incarnarsi nell’etica della vita, nel buon essere, nel ben-essere
fragorosamente muto di fronte allo straparlare schiamazzante dei più, ieri e
oggi: la poesia non è solo sfogo di un’anima, rifugio, qui sembra
concentrazione di energia riposta nell’intimo di un corpo animato da spirito. A
leggere e rileggere quanto Bondi dice di sé e del suo poetare, tutto sembra
incollato alla necessità di esprimere qualcosa in qualcuno, in un io vivente e
libero; appare anche, e lui conferma, testi pubblici alla mano, che così è, si
tratta di rifugio, fuga mundi, insomma, non è così, a mio avviso, e qui Bondi
dovrà prima o poi rassegnarsi ad uscire allo scoperto, con quel senso della
gratuità che nella politica non gli è mai mancato: si è uomini lottando
strenuamente con la propria ombra e questa è sorgente e fonte animalesca di
grido vitale, vita, spéssa vita, corrosiva e invitta. 

Suggerisco al mio amico Sandro di non dedicare
più poesie ad uomini e donne di questo stanco mondo patinato, ancorché
presente, visibile, straziantemente invadente; che il verso diventi pallottola
che attraversa il corpo dell’infinito, ma pasolinianamente carnale, ruvida,
fetida quasi, come Dante la voleva e come Eliot, seguendo Pound, sapeva essere.
La poesia non è delicatezza dedicata, mai sprecare il proprio talento per gli
altri, ma è fierezza disastrata dall’esperienza, assoluto inscritto in tre
quartine sghembe, errore filosofico che trova spazi inediti.

Sul lago Maggiore,
Sandro pesca un “torbido pensiero”, ecco l’ombra nostra, mia e tua, che
incalza, c’è troppa meraviglia stucchevole in giro, chiamiamo le cose con il
proprio nome e bestemmiamo gli dèi falsi del mondo per tornare a dissetarci alle
fonti della verità. Un corpo crocifisso, in fondo, un corpo vinto e straziato.
L’unico segno che ancora ci dica qualcosa della nostra miseria senza
annichilire il domani.