La casta è morta: abbasso la casta
08 Agosto 2007
Dovrei citare per danni Rizzo e Stella. Alle ultime politiche, infatti, sono stato eletto in Parlamento e dunque, secondo i canoni, sarei finalmente entrato a far parte della “casta”. Circa un mese fa sono passato dal commercialista per firmare il 740. Con sorpresa, ho dovuto prendere atto che il mio reddito annuale è diminuito. Non una grande cifra per carità, ma sempre di soldi si tratta. Lo scranno parlamentare, in particolare, mi ha fatto perdere parte dei proventi dell’attività pubblicistica. Per ragioni di tempo, innanzi tutto. E poi perché l’opinione di chi fa parte della casta è ritenuta “contaminata” e, per questo, è meno ricercata. Ho provato a spiegarlo a mia moglie. Non c’è stato niente da fare. Forte della considerazione che lei ha per Rizzo e Stella ha preteso un aumento sulle spese per il mantenimento della famiglia. Come mi capita spesso in casa, con fermezza e rigore ho ceduto. Non prima, però, di esser tornato a maledire i due autori del fortunato pamphlet.
Fosse solo che per spirito di vendetta, non avendo alcuna chance in una causa per danni, vorrei qui lanciarmi nella dimostrazione di una tesi spericolata: la casta non esiste. O, per maggior precisione, non esiste più. E proprio per questo se ne parla tanto.
La classe politica del bel Paese è stata a lungo una “classe chiusa”. Si pensi alla longevità dei partiti per la quale quelli della stagione costituente, attraverso scissioni e riunificazioni, hanno mantenuto il monopolio del Parlamento fino al 1976, quando nel club fecero un timido ingresso i primi due intrusi, demoproletari e radicali. E si pensi alla ancora più impressionante longevità di alcune carriere parlamentari che sono durate – e in alcuni casi si sono trascinate -, anche per più di dieci lustri. Queste considerazioni, d’altra parte, trovano agevole conferma statistica. Se si guarda ai tassi di ricambio del personale parlamentare nel secondo dopoguerra, quelli italiani sono di gran lunga e per lunga pezza i più bassi di tutto il mondo occidentale.
Il 1994 ha rappresentato una “rottura”, in due sensi. In quelle elezioni, che seguirono il ciclone di tangentopoli, vi è stato il più impressionante ricambio di classe politico-parlamentare. Nemmeno la Prima guerra mondiale riuscì a mietere tante vittime. E poi la destra, per la prima volta dalla nascita della Repubblica, vinse le elezioni. Entrambe queste “rotture” hanno avuto conseguenze sulla casta. D’allora in poi, infatti, i tassi di ricambio della classe parlamentare sono cresciuti di molto e “partiti nuovi” si affermano praticamente a ogni consultazione. L’inopinata vittoria di Berlusconi ha poi generato a sinistra un insopportabile sospetto nei confronti della sovranità del popolo. Nei salotti bene, così come dopo il 18 aprile del 1948, si è tornati a maledire il suffragio universale. E da parte delle élites che contano, più concretamente, da più di un decennio si sta provvedendo a svuotare il potere politico-parlamentare trasferendone parte cospicua ai gran commis di Stato, anche grazie alla creazione di sempre più numerose agenzie fintamente indipendenti. Così, pure se dovesse rivincere Berlusconi, parte del bottino resterà in mani sicure.
Ci si chiederà: cosa c’entra tutto ciò con i costi della politica? Convengo che una discussione seria andrebbe fatta voce per voce. E non intendo negare che alcuni privilegi – soprattutto ai livelli meno in vista – gridano vendetta al cospetto di Dio. Ma per quanto concerne la “casta” e la sua percezione, il combinato disposto di quanto analizzato fin qui, a me sembra abbia provocato due conseguenze che vale la pena evidenziare.
Da un canto, ha enormemente ampliato il numero dei suoi componenti rendendo non più sostenibile, anche da un punto di vista economico, alcuni “privilegi”. L’esempio paradigmatico è quello dei vitalizi dei parlamentari. Vanno rivisti, in primo luogo per adeguarsi a una più generale esigenza del Paese. Ma anche perché a percepirli oggi, potenzialmente, sono molti più di ieri: non più una casta, appunto, ma una schiera.
Dall’altro canto, la sottrazione di potere effettivo ai “castaldi” ha reso agli occhi della pubblica opinione ogni attribuzione ai politici illegittima. Una macchina blu per chi esercita potere può essere socialmente giustificata; ma se si conta poco e si vuol sfuggire la pubblica indignazione l’unica soluzione è auto-condannarsi al motorino a vita, come fa il sottoscritto (pur continuando a sperare, in cuor suo, che un giorno o l’altro giunga anche per lui un’amnistia).
Si potrebbe dunque concludere: la casta è morta; abbasso la casta! Ma è proprio a questo punto che il discorso si fa più serio. Perché a me pare che dietro la denuncia di Rizzo e Stella e il successo che l’ha consacrata si nasconda qualcosa che va al di là dei contenuti specifici della documentazione proposta. E questo qualcosa è l’illegittimità del potere politico: un’antica malattia italica, sulla quale s’intrattenne per primo Guglielmo Ferrero. Essa fa sì che, nei confronti dei potenti, l’italica gente sia supina e sottomessa nella fase dell’ascesa e poi dello splendore. Per divenire cinicamente spietata al momento della caduta. Tutto ciò in spregio della fisiologia che vorrebbe il potere un servizio da esercitare in un periodo del proprio viaggio terrestre, per poi ritirarsi a vita privata e, se proprio è il caso, scrivere delle memorie. Ed è proprio ciò che accade laddove, a differenza che da noi, il potere non è percepito come usurpazione e come occupazione indebita.
In Italia, invece, agli esempi di Clinton, Tatcher, Blair, de Gaulle, Aznar ci viene più facile contrapporre quelli di Mussolini, De Gasperi, Moro, Andreotti, Craxi. Vicende biografiche tutte differenti, per carità. Ma accomunate dalla drammaticità dell’epilogo di una lunga carriera: bene che sia andata, si sono finiti i propri giorni in solitudine ovvero ce la si è cavata per il rotto della cuffia dalla condanna per mafia da parte di un tribunale!
Questa legge spietata non ha risparmiato gli organismi collettivi: ieri i partiti oggi la casta. Anche nei loro confronti la campagna di discredito è scattata nella fase del declino, quando non contavano più. E il fatto che se la possano essere meritata non cambia, purtroppo, la conseguenza drammatica per la quale quelle campagne sono servite a indebolire ancor di più un potere politico già di per sé debole.
La storia è governata da conseguenze non volute (sempre che nel nostro caso esse non siano volute davvero). Per questo oggi l’attacco alla “casta” ha come effetto quello di proteggere tutte le altre caste nelle quali si è segmentata la società italiana, proprio a causa della debolezza del potere politico. Esse, assai spesso, godono di privilegi, che sarebbe bene far conoscere, ben maggiori di quelli dei quali godono i politici. Non per infantile par condicio ma per sottrarre una campagna giusta a una insopportabile deriva anti-politica.
Da parte della maggior parte dei politici, invece, a me pare vi sia la tendenza ad assecondare acriticamente la deriva, sperando magari che l’opinione pubblica si accontenti di pochi bocconi gettatigli in pasto. Non sarà così. Solo se si riuscirà a scambiare privilegi contro effettivo potere d’indirizzo sarà possibile per la politica non condannarsi al ruolo del parente povero e sputtanato, mentre tutti intorno fanno festa incuranti delle loro vergogne.
Per questo, se non si contrapporrà a questa campagna una conoscenza più ampia del fenomeno e, soprattutto, il coraggio necessario a riformare istituzioni che non funzionano più, non se ne uscirà fuori. E alla fine, ad essere sconfitti non saranno i privilegi ma la politica, la sua funzione d’indirizzo e la sua antica nobiltà.
Si può far poco per evitarlo, ma quel poco va tentato. Io spero che l’Occidentale non si sottragga a fare la sua parte con un contributo d’analisi e d’informazione. Quanto meno, tornando dalla spiaggia, dopo aver visto copie della “casta” disseminate sotto gli ombrelloni dei vicini, si potrà fare una capatina sul web per respirare un sorso d’aria fresca. E continuare a sperare.