La Casta, il Popolo e la Restaurazione

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La Casta, il Popolo e la Restaurazione

27 Luglio 2011

Sul Corriere della Sera di martedì scorso Piero Ostellino, con la consueta lucidità intellettuale, ribalta i pregiudizi che alimentano il surreale dibattito sui cosiddetti costi della politica e che sembra essere diventato l’unico argomento di interesse della sfera pubblica italiana.

Secondo Ostellino il problema vero è “quanto spazio debba occupare la sfera pubblica a ogni livello, e quanto di tale spazio dovrebbe essere lasciato a noi stessi, alla società civile” e aggiunge che “la risposta corretta, dalla quale partire, è “più Stato, dove è necessario; più società civile, dove è possibile”.

Non c’è dubbio che l’Italia non abbia mai voluto affrontare sistematicamente il ritiro della mano pubblica da un’ampia sfera dell’attività umana, tanto che oggi si valuta nel 51% la percentuale del prodotto interno lordo intermediato dallo Stato, e in ultima analisi, dalla politica.

Non c’è dubbio, inoltre, che il centrodestra – che pure della secca riduzione dello Stato nella vita della nazione aveva fatto la sua ragione fondativa – abbia mancato l’obiettivo, con il rischio che le buone idee siano travolte dall’incapacità di realizzarle.

C’è però un aspetto della furibonda campagna contro la politica e i parlamentari che nemmeno l’analisi di Ostellino mette sufficientemente in luce e che, invece, rivela quanto profonda sia la crisi politica della nazione e della sua coscienza popolare.

Se Ostellino pone il tema del “chi fa cosa”, un segmento significativo del popolo italiano pone il mondo politico di fronte al tema di quello che potremmo chiamare il “chi dà cosa”.

Per decenni il sistema politico italiano ha stabilito con il suo popolo un perverso rapporto di gestione del consenso. I partiti politici, invece di essere luoghi di elaborazione di soluzioni ai problemi della vita pubblica e di formazione e selezione della classe dirigente, si erano trasformati in elefantiache agenzie di integrazione sociale e distribuzione di risorse pubbliche. L’esempio di un uomo politico recentemente scomparso, Remo Gaspari, è illuminante. Per decenni Gaspari è stato il più votato politico di Abruzzo. E il motivo di tanto consenso non erano le sue idee, quanto il numero di posti di lavoro pubblico e para pubblico, il numero di pensioni di anzianità, il numero di piccoli e grandi favore offerti ai suoi conterranei. “Zio Remo” viene ricordato con affetto perché “ha fatto del bene a decine di migliaia di persone” e per questo è stato a lungo tributato di consensi plebiscitari.

Questo sistema di conquista del consenso ha contribuito alla formazione del terzo-quarto debito pubblico del pianeta da parte di una nazione che non ha il terzo-quarto reddito nazionale.

Ora accade che i parlamentari non possono più distribuire alcunché, perché il riassetto istituzionale, Europa+Regioni, ha sottratto loro la gestione delle risorse, e la crescita del debito ha spinto alla chiusura dei rubinetti dello Stato.

Parte dell’opinione pubblica, però, ritiene che i parlamentari dispongano degli stessi poteri e delle stesse risorse di un tempo. E che invece di distribuire prebende al “popolo” (che coincide per definizione con chi chiede assistenzialismo e favori), le tengano per sé e al massimo per i propri parenti e per le proprie amanti e concubine.

Questa convinzione scatena due reazioni, entrambe irrazionali, che però vengono amplificate e rese vere dalle campagne mediatiche. La prima è quella di valutare le retribuzioni dei parlamentari non in base alle prestazioni offerte (come in qualunque attività), ma sulla base di un presunto criterio di giustizia secondo il quale il politico non è un componente della classe dirigente, ma dovrebbe essere una specie di missionario francescano.

La seconda reazione attinge al criterio del consenso. Se oggi il parlamentare tiene per sé e per i suoi famigli quello che un tempo distribuiva al “popolo” è perché viene “nominato e non eletto”. Dunque occorre tornare al voto di preferenza personale perché così il politico è costretto a “dare” benefici pubblici diretti e personali per avere consenso elettorale.

Dopo quasi vent’anni di tentativi di riforma del sistema politico istituzionale aperti con l’abolizione referendaria delle preferenze quale fonte del voto di scambio e di altri più gravi fenomeni, la parabola dell’immobilità istituzionale e politica sembra chiudersi con il ritorno della preferenza come fonte di legittimazione dei parlamentari. Un segno evidente del fatto che lo statalismo paracomunista continua a trovare alimento non solo nelle classi dirigenti, ma in un ampio settore della società italiana.