La cecità dell’opinionismo liberal sull’Iran
11 Maggio 2018
Quelli che l’unica scelta possibile sull’Iran è chiudere gli occhi (à la Chamberlain). “The risk of igniting Middle east”. Roger Cohen sul New York Times del 10 maggio scrive che la mossa di Donald Trump sull’Iran potrebbe incendiare il Medio Oriente. E’ incredibile il grado di cecità di certo opinionismo liberal: la Libia è a pezzi, in Irak si è appena conclusa una guerra ma le elezioni non stabilizzeranno probabilmente il Paese e così in Libano. In Siria scorazzano eserciti di tutte le nazionalità (turche, russe, saudite, americane, iraniane). Lo Yemen bombarda ed è bombardato. Che cosa significa che il Medio oriente si potrebbe incendiare? Un po’ lo spiegano Isabel Kershner e David M. Halbfinger sul New York Times del 10 maggio quando scrivono che: “Iran struck shortly after President Trump pulled out of the nuclear agreement, raising speculation that it no longer felt constrained by the possibility that the Americans might scrap the deal if Iran attacked Isr Iran struck shortly after President Trump pulled out of the nuclear agreement, raising speculation that it no longer felt constrained by the possibility that the Americans might scrap the deal if Iran attacked Israel”, Teheran ha colpito Israele dopo che Trump si è tirato fuori dal trattato sul nucleare iraniano, perché farlo prima avrebbe dato un pretesto al presidente americano per rompere. Ma perché riempire la Siria di basi missilistiche dalle quali attaccare lo stato ebraico non sarebbe in sé un buon pretesto per forzare la trattativa con il regime degli ayatollah? Naturalmente si può sempre scegliere la linea che propone Philip Stephens sul Financial Times dell’11 maggio: “The Tehran regime is obnoxious. Its interventions in the region are destabilising. But the war sought by Israel and Saudi Arabia would be still more dangerous”. Il regime iraniano è odioso, la sua attività nell’area è destabilizzante ma la guerra prevista da Israele e Arabia Saudita è ancora più pericolosa. Ecco una posizione che tra gli inglesi ha una ben nota tradizione, quella di Neville Chamberalin a Monaco ’39 con la sua famosa profezia sull’abbiamo raggiunto la pace nel nostro tempo “Peace in our time”. Ahimé io sono piuttosto della scuola churchilliana illuminata dalla famosa battuta rivolta appunto a Chamberlain dallo statista che poi sconfisse Adolf Hitelr: “You were given the choice between war and dishonour. You chose dishonour, and you will have war”, ti si era prospettata la possibilità di scegliere tra il disonore e la guerra, hai scelto il disonore, avrai la guerra.
Un’Italia corrotta e fradicia. “Si dipingono alle spalle un paesaggio comune di macerie e distruzione, un mondo corrotto e fradicio”. Così scrive Ezio Mauro sulla Repubblica dell’11 maggio. Ce l’ha con i suoi cronisti di giudiziaria (tra l’altro proprio sullo stessa Repubblica dell’11 Piercamillo Davigo intervistato da Liana Milella dice: “In Italia esiste una subcultura diffusa secondo cui a violare le leggi sono i furbi e a rispettarle i fessi”) o si riferisce alla lontana campagna del 2007 del Corriere della Sera, in realtà lanciata dalla Confindustria di Luca Cordero di Montezemolo, contro la “casta politica”? No, se la sta prendendo con Matteo Salvini e Luigi Di Maio.
Europeist attack! “’Non possiamo sempre aspettare tutti’. Sottinteso: anche gli italiani, se sceglieranno di frenare sulla strada dell’unione, con un governo anti-europeista, dovranno scendere dal vagone di testa”. Leonardo Martinelli sulla Stampa dell’11 maggio riporta le parole di Emmanuel Macron sui pericoli “italiani” per una riforma dell’Unione europea che poi lo stesso presidente francese sgridando Angela Merkel spiega come sia ben lontana dall’essere a portata di mano. La presa di posizione macroniana, in sé abbastanza fastidiosa per arroganza, è solo una delle tante dichiarazioni di allarme europeistico che si possono trovare sui nostri media di fronte alla prospettiva di un governo lego-grillista. “Non ci sono i fuochi d’artificio, non subito almeno”, così minaccia le reazioni di Bruxelles Federico Fubini sul Corriere della Sera dell’11 maggio. “Nel giro di pochi mesi il Paese potrebbe trovarsi ostracizzato, scoperto sui migranti, con i mercati contro e magari in procedura per deficit eccessivo” scrive Alberto D’Argenio sulla Repubblica sempre del 15. Mentre ancora il 15 sulla Repubblica Goffredo de Marchis spiega come si stia delineando: “Un governo italiano nel solco di Orban”. Al di là del fastidio per un evidente spirito di subalternità che dimostra la parte centrale del nostro opinionismo, quel che sconcerta è la mancanza di realismo di questo “euopeist attack!”: i principali supporter del “popolare” ungherese Viltor Urban sono il “popolare” Horst Seehofer leader della Csu bavarese e ministro degli interni della Merkel e il “popolare” Sebastian Kurz cancelliere austriaco. Il leader della rivolta “baltica” alla riforma macroniana è Olaf Scholz ministro dell’economia tedesco, socialdemocratico ma soprattutto sindaco di un Amburgo in larga sintonia con il vasto schieramento baltico in movimento contro il macronismo (Lettonia, Estonia, Lituania, Finlandia, Olanda, Svezia, Danimarca e un po’ spostata l’Irlanda). Capisco che in certi casi uno possa essere costretto a sottomettersi per ragioni talvolta persino nobili di superiore necessità, ma dovrebbe almeno scegliere con attenzione con chi farlo. Mai sprecare un gesto di totale servilismo.
Magari è la volta che “tutto” il popolo entra nello Stato nazionale. “Si tratta, in ogni caso, dell’apertura di un periodo estremamente stimolante della nostra storia, il quale, comunque andranno le cose, può innovare molto, specialmente sul piano degli stili e dei modi di essere, non dominati più dalla volontà individuale di potenza ma dalla semplicità naturale dei comportamenti”. Benedetto Ippolito su Formiche dell’11 maggio non si nasconde limiti e pericoli presenti nelle posizioni dei leghisti e in misura infinitamente maggiore nei grillini. Ma coglie un elemento positivo centrale: si chiude una fase di politica di potenza dall’alto e si apre a un tentativo di far entrare il popolo, tutto il popolo anche quello un po’ impresentabile, nello Stato. Chissà se quel che non riuscì a Giovanni Giolitti agli inizi del Novecento (che, anche allora, fallì per intervento prioritariamente francese sul capo dello Stato d’allora Vittorio Emmanuele III) possa avvenire adesso. E non va scordato che se questo succederà sarà anche merito di una personalità come quella di Silvio Berlusconi sbertucciata forse anche più di quella dello statista di Dronero.