La cittadinanza ‘baby’ è figlia di un modello autoritario che deve far paura

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La cittadinanza ‘baby’ è figlia di un modello autoritario che deve far paura

24 Novembre 2011

 

Le polemiche susseguite alle dichiarazioni del Capo dello Stato sulla concessione automatica della cittadinanza ai figli degli immigrati nati sul territorio italiano hanno riproposto le stesse identiche contrapposizioni un po’ banali – “accoglienti” contro “rigorosi”, secondo la vecchia tradizione della partita di calcio tra scapoli e ammogliati – e non hanno consentito di fare un passo in avanti nella formulazione di un modello condiviso di integrazione.

Per contribuire a elevare il dibattito un po’ più in alto delle schermaglie d’occasione – cui si è prestato anche il neo-ministro all’integrazione – vorrei proporre un paio di argomenti di riflessione.

Non trovo nulla di civile né di moderno nell’idea di conferire automaticamente la cittadinanza italiana  a chi nasce sul territorio dello Stato, o addirittura ci arriva entro il secondo anno di vita come ha proposto Italo Bocchino. Considero questa impostazione figlia di una mentalità autoritaria che si propone di realizzare una sorta di “anschluss individuale”, di annessione forzosa nei confronti di chi, neonato o bambino, non è nelle condizioni di scegliere consapevolmente.

Chi propone l’adozione dello ius loci come strumento di una migliore integrazione razziale e sociale, non si rende conto di pronunciare in modo implicito una affermazione raccapricciante che suona più o meno così: “tu, caro immigrato, non hai titolarità di diritti e doveri perché non sei italiano, e non avrai piena considerazione sociale ed economica se non ti assoggetti – che ti piaccia o meno – a diventare italiano”. Una posizione che presuppone che i diritti economico-sociali possano essere goduti pienamente solo da chi fa parte della Nazione, secondo lo schema di un vecchio nazionalismo autoritario che oggi si impadronisce dello ius loci per affermare, senza dirlo, la supremazia dell’italianità sulla condizione dello straniero.

È anche per queste ragioni di fondo che un partito che non ha nel suo Dna il primato della Nazione – come la Lega Nord – si oppone alla concessione della cittadinanza italiana agli immigrati. Al di là degli argomenti proposti agli elettori sull’incentivo a stabilirsi in Italia che il beneficio della cittadinanza più facile rappresenterebbe, la Lega Nord, che certo non considera l’essere italiano come una bandiera da sventolare e dunque potrebbe considerare auspicabile una disgregazione dell’identità nazionale, contrapposta alla “identità padana”, si oppone con toni durissimi all’ipotesi dell’adozione dello ius loci.

Parallelamente si spiega con la esaltazione di un certo nazionalismo contemporaneo (in epoca di globalizzazione e crescente pammissia) l’entusiasmo con cui certa destra neo-nazionalista si fa paladina dello ius loci adottando un approccio ideologico all’integrazione e all’identità, approccio che conferisce diritti e doveri esclusivamente ai connazionali, escludendo gli altri.

A questo approccio si allinea anche la sinistra, che avendo perso dal proprio patrimonio ideale il tratto dell’internazionalismo, insegue l’estensione dello stato sociale a chiunque appaia bisognoso, secondo quel riflesso spontaneo per il quale si preferisce tenere un povero assoggettato al “benefattore” piuttosto che puntare alla sua emancipazione attraverso innanzitutto il lavoro e il reddito.

Il secondo argomento su cui vale la pena riflettere è l’inutilità dei confronti tra legislazioni nazionali. La cittadinanza e i modi della sua acquisizione sono frutto di processi fondativi delle nazioni moderne e non soluzioni tecniche di maggiore efficacia o efficienza.

Il fatto che lo ius soli in Europa esista solo in Francia e dal 1515, dimostra che nulla ha a che fare con i movimenti migratori recenti né con il passato coloniale, mentre negli Stati Uniti – spesso citati dai tanti politicamente corretti come un buon esempio – lo ius soli è la condizione necessaria per costituire il popolo americano e in tempi rapidi. I padri fondatori delle tredici colonie non sarebbero stati padri fondatori se non avessero acquisito la cittadinanza americana semplicemente nascendovi. E non è affatto casuale che l’apice della rappresentanza politica – il Presidente degli Stati Uniti d’America – debba essere cittadino statunitense, cioè nato su quel suolo. Ma gli Stati Uniti d’America sono – sin dall’origine – un melting pot di origini e di etnie e quello che vale per loro non necessariamente vale per nazioni, come quelle europee, che hanno attraversato tutt’altre vicende.