La Clinton stringe un patto anti-crisi con Pechino

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La Clinton stringe un patto anti-crisi con Pechino

24 Febbraio 2009

Fino a venerdì scorso i cinesi avevano un brutto ricordo di Hillary Clinton. Era il 1995 e l’attuale segretario di Stato americano aveva il ruolo, solenne ma politicamente più disinvolto, di first lady. Così, in assoluta libertà, pronunciò un discorso appassionato sulle violazioni dei diritti umani nei confronti delle donne. Per il governo cinese fu un duro colpo da digerire mentre la stampa nazionale si vendicò, sottolineando che la moglie del presidente vestiva in giallo, colore che in Cina viene associato alla pornografia!

Questa volta Hillary, al termine (e al culmine) del suo lungo viaggio in Asia, ha voluto e dovuto eseguire ben altro spartito. Prima di tutto, ha evitato accuratamente ogni stravaganza nel look. A tutti gli incontri, compresa una lunga intervista alla tv di Stato, si è presentata in impeccabili abiti neri. Per ricucire lo strappo antico con i giornalisti, poi, ha citato disinvolta alcuni chengyu, sorta di aforismi cinesi, come "sulla stessa barca ci si aiuta a vicenda" o "è sempre meglio non improvvisare".
Al di là delle forme, che in politica comunque pesano e in Cina ancor di più, è la sostanza delle cose, che la Clinton ha detto e non detto, a dare il segno di una svolta.

Volutamente sono stati ignorati tutti gli argomenti tabù per i cinesi, dalle libertà violate all’indipendenza di Taiwan, fino alla sorte dei tibetani. Eppure il 10 marzo saranno 50 anni dalla fuga del Dalai Lama in India e a giugno cadono i 20 anni della repressione di Tienanmen. Le premesse per bacchettare la Cina, insomma, non mancavano. Ma agli atti rimarranno solo gli arresti (preventivi) di alcuni attivisti e l’invito, perentorio, di Hillary: le questioni umanitarie non devono interferire nella collaborazione tra Cina e Stati Uniti nella soluzione della crisi.

Quando c’è di mezzo una recessione globale, persino le ragioni più nobili vengono messe a tacere dal realismo della politica. La signora Clinton ha parlato solo di economia ai cinesi: "Il destino economico e finanziario dei nostri Paesi è indivisibile – ha dichiarato in tv – Sono certa che il governo e la Banca centrale di Pechino continueranno ad investire in buoni del Tesoro americano". Perché, ha concluso Hillary, "gli Stati Uniti hanno un’ottima reputazione finanziaria". Giudizio per lo meno audace quello dell’ex first lady, se si pensa ai disastri di Lehman Brothers e soci.

Ma la fortuna degli americani è che la Cina dovrà ad ogni costo assecondare le speranze di Washington. Come spiega Giuliano Noci, docente di marketing al Politecnico di Milano e frequentatore abituale della Cina: "Dopo questa visita, le due potenze hanno siglato una sorta di patto di stabilità. Gli Stati Uniti hanno bisogno di almeno millecinquecento miliardi di dollari, che solo i cinesi possono sborsare. La Cina, dal canto suo, negli ultimi mesi è diventata il primo possessore di buoni del Tesoro americano (per un valore totale di 700 miliardi di dollari. Ha superato anche il Giappone, ndr).  Dunque, ha tutto l’interesse a dar fiato all’economia statunitense". Ma tutto questo ha un prezzo. "Pechino chiede in cambio due condizioni – conclude Noci – Gli Stati Uniti devono continuare a comprare il made in Cina e garantire la stabilità del dollaro".

Difficile sfuggire a questo schema di mutuo soccorso, a meno che non si voglia vedere a picco l’economia americana e, a ruota, quella cinese. Dopo il viaggio di Hillary Clinton, le priorità dell’amministrazione americana sono sempre più chiare. Come già aveva fatto Bush negli ultimi anni, la rotta da privilegiare corre lungo il Pacifico. La Vecchia Europa può aspettare.

Nel frattempo provvedono i cinesi a fare ‘shopping finanziario’ dalle nostre parti. In questi giorni una delegazione di oltre 100 persone da Pechino è in Germania, per investire 50 miliardi di dollari. Il piatto forte è l’acquisizione della tecnologia del Maglev, il treno ad alta levitazione della Thyssen Krupp.