La Costituzione non è un duello rusticano

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La Costituzione non è un duello rusticano

26 Aprile 2016

L’Occidentale mi chiede un parere sull’appello cosiddetto “dei cinquanta costituzionalisti” che manifesta un dissenso di merito sulle riforme. Molte considerazioni contenute in quel testo le condivido, altre no. Una di fondo: io non credo che nel rapporto tra Stato e regioni si debba procedere nella direzione tracciata dalla riforma del Titolo V del 2001. La competenza legislativa attribuita alle regioni a mio avviso è stata troppo ampia e va dunque “razionalizzata” nel quadro di una complessiva rivisitazione delle nostre autonomie territoriali.

Quel che più mi ha colpito dell’appello, però, è il tono, lo stile. All’inizio di questa legislatura c’eravamo posti l’obiettivo ambizioso di riunire il Paese intorno a un pacchetto di riforme condivise, che potesse agevolare la rigenerazione di culture politiche alternative e ridurre il terreno di coltura della cosiddetta antipolitica.

Questo programma si proponeva anche di agevolare un disgelo nel mondo dei costituzionalisti: portare gli esponenti di diverse scuole e orientamenti politico-culturali a confrontarsi e a parlare tra loro evitando di insultarsi dalle colonne dei quotidiani.

Questo obiettivo è stato la mia bussola, sia quando sono stato chiamato dal presidente Giorgio Napolitano a far parte di un ristrettissimo gruppo di lavoro sulle materie politico-istituzionali, sia quando da ministro sono stato incaricato dal presidente Enrico Letta di guidare la Commissione per le riforme costituzionali.

Penso di non poter essere smentito se affermo che i documenti prodotti all’esito di quelle due esperienze rappresentino il frutto più maturo di una ricerca non effimera di unità intorno a un rinnovamento dei nostri principi costituzionali, perseguita da parte di tutti coloro che ne sono stati coinvolti con pazienza, tolleranza, attenzione alle ragioni degli altri.

Debbo dire che mi sembra di rintracciare quello stesso spirito nell’appello di cui si parla in questi giorni, al di là delle singole questioni di merito. Il fatto stesso di aver raccolto sottoscrizioni che tagliano trasversalmente posizionamenti politici, scuole accademiche, fedi religiose, è il segno di una propensione alla ricerca critica e al confronto.

Di questa propensione, invece, non ho fin qui trovato traccia nell’atteggiamento del governo e del suo presidente. L’esecutivo, infatti, non ha inteso presentare il risultato raggiunto come un prodotto migliorabile, ammettendo errori, omissioni, aporie. L’iter della riforma è stato certamente difficile e defatigante ma ciò non può giustificare il rifiuto di prendere in considerazione alcuna correzione o integrazione, che pure sono state presentate con volontà costruttiva.

Si è preferito, piuttosto, utilizzare la riforma come la prova di un decisionismo che non si arresta di fronte a niente e il referendum confermativo è stato inteso come uno strumento per delegittimare gli oppositori con lo scopo, addirittura, di sbaragliarli.

In tal modo, le riforme che avrebbero dovuto fornire al Paese un lessico condiviso rinnovando il patto costituente hanno inevitabilmente “cambiato verso”, trasformandosi nell’oggetto di una contesa rusticana.

I toni e lo stile dell’appello dei costituzionalisti, invece, non cede a questa tentazione. C’è da augurarsi che, dall’opposta sponda, la risposta possa consistere in un atto di ravvedimento per il quale, data la posta in gioco, non è mai troppo tardi.