La crisi catalana e la disastrosa gestione madrileno-bruxellese

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La crisi catalana e la disastrosa gestione madrileno-bruxellese

05 Marzo 2018

Ma Madrid e Bruxelles possono continuare a lasciare andare così alla deriva la crisi della Catalogna? El PP busca fórmulas para impedir que Carles Puigdemont y Toni Comín sigan cobrando su sueldo como diputados autonómicos (2.800 euros brutos mensuales) mientras siguen huidos en Bruselas (Bélgica) para escapar a la acción de la justicia española. Aunque los dirigentes de la formación reconocen la dificultad de culminar con éxito el proyecto, apuestan por apurar todas las vías contra una situación “que desnaturaliza la condición de parlamentario”. Al tiempo, el Gobierno duda de que se pueda usar el artículo 155 para actuar contra los altos cargos de la Genralitat que donan parte de su sueldo a los guido”. Juan José Mateo scrive sul Paìs del 3 marzo che il Partito popolare spagnolo sta cercando di impedire a Puigdemont e Comìn di intascare i loro compensi come parlamentari catalani e ha denunciato gli eletti indipendentisti che hanno raccolto soldi per i fuggitivi. Va ricordato che ancora non ci sono stati processi, che i reati compiuti sono reati di opinione, che c’è un voto del 21 dicembre che non ha determinato un governo a Barcellona perché una parte degli eletti è in galera o in esilio. Anche chi fosse critico verso il secessionismo di Puigdemont e dei suoi, non può non essere stupito da come Mariano Rajoy sta gestendo questa profonda crisi democratica. Altrettanto meraviglia suscita l’indifferenza dei vari organismi di governo dell’Unione europea, ancora di più perché nel frattempo accusano il governo polacco di limitare i diritti dell’opposizione.

La Spd vota per due terzi Merkel sperando nell’Unione europea e avendo paura del salto nel buio.Germany’s Social Democrats agreed to prolong their unpopular ruling coalition with Chancellor Angela Merkel’s conservatives, ending a period of political uncertainty unprecedented in the country’s recent history”. Bojan Pancevski e Andrea Thomas  scrivono sul Wall Street Journal del 4 marzo come gli iscritti al partito socialdemocratico tedesco hanno scelto la Grande coalizione consentendo di prolungare l’esperienza del non molto popolare governo Merkel. Già due settimane fa la stampa inglese aveva previsto una maggioranza di due terzi di approvazione in un partito assai provato dal ridimensionamento elettorale del settembre del 2017, dai pasticci di Martin Schulz e da terrificanti sondaggi che li danno oggi tra il 18 e il 16,5 %. La freschezza dell’impegno dei giovani socialisti, gli Jusos, aveva a un certo punto fatto pensare che il risultato fosse in bilico, ma l’Spd è ancora un vero partito rank-and-file, che segue gruppi dirigenti, ricompattati da una leader di sinistra Andrea Nahles, ottima oratrice e politica appassionata. Alla fine hanno prevalso due sentimenti: la speranza che nello spazio offerto dall’Unione europea si possa ricostituire una proposta in qualche modo socialista, e soprattutto la paura del salto nel buio ragionevolmente assai viva in una nazione come quella tedesca. Personalmente mi sembra che le speranze siano insufficientemente fondate (l’Unione europea ha bisogno di un aperto confronto tra idee non dei soliti pasticci merkelliani pur corretti in salsa macroniana) e soprattutto che il cedere alla paura, indebolendo il tessuto democratico con altri anni di grande coalizione, possa risultare particolarmente miope.

I popoli si educano con la libertà e l’autogoverno, non con la spocchia delle élite.“In Svizzera il referendum per l’abolizione del canone radiotelevisivo è stato bocciato è stato bocciato: la maggioranza dei 26 cantoni e semi cantoni della Confederazione elvetica ha respinto la proposta. Tutti i cantoni per i quali sono disponibili i risultati definitivi hanno optato per il “no”, con percentuali che vanno dal 62,7% di Sciaffusa al 78,3% di Neuchatel. Subito dopo la consultazione, il direttore della Ssr ha annunciato risparmi per 100 milioni di franchi”. Flash del Tgcom online del 4 marzo. La civiltà non consiste solo nel bocciare un referendum che togliendo un canone toglieva servizi qualificati come quelli della radiotelevisione elvetica, sta anche nel “farlo”, nel non avere paura del popolo sovrano e aiutandolo così ad auto educarsi. Osservazione a margine per gli abitanti in Lombardia: è inutile avere nostalgia del fatto che quando Galeazzo Maria Sforza venne sconfitto nella battaglia dei sassi grossi nel 1478, il cantone di Uri non si annesse la Lombardi.  E’ andata così e non si torna indietro.

Esaminando l’elenco degli sconfitti (oltre a Matteo Renzi, Pierluigi Bersani, in parte Silvio Berlusconi, Emma Bonino, Casa Pound, il basso voto di Moi per l’Italia e così via), non dimentichiamoci le tesi sostenute dai repubblicones. La Repubblica è una delle grandi sconfitte di queste elezioni (e insieme a loro, i republicones si sono portati dietro nella disfatta i repubblichini cioè quelli che un tempo su posizioni pur ironicamente berlusconiane, in questi anni più recenti hanno imitato l’arrogante e stolta supponenza del quotidiano di Largo Fochetti). Il quotidiano diretto da Mario Calabresi ha con Eugenio Scalfari rilanciato l’idea di un Renzusconi (decisiva nell’alzare i voti sia dei leghisti sia dei grillini), poi si è inventata la marea nera (in questo senso è da esaminare il voto di Casa Pound), la salvifica Emma Bonino (non per nulla sostenuta da Michele Serra), la ridemonizzazione di Silvio Berlusconi con tanto di elenco di processi incombenti, la neodemonizzazione dei grillini (altro decisivo fattore della vittoria di questi ultimi) nonché la mostrificazione di Matteo Salvini. Insomma una linea abbastanza ubriaca e con il risultato di non imbroccarne una. E’ dunque interessante, in questo quadro, esaminare i commenti a caldo scritti nella notte tra il 4 e il 5 marzo su Repubblica. “Più vicina a Budapest che a Bruxelles” scrive Andrea Bonanni. “Matteo Renzi questa volta chiude una parabola” scrive  Claudio Tito. “Nulla sarà più come prima” scrive Stefano Folli. “E così Luigi Di Maio si ritrova, a 31 anni – la stessa età del nuovo cancelliere austriaco Sebastian Kurz, che anzi è più giovane di 51 giorni a capo del movimento anti-sistema più votato di tutta l’Europa”. Scrive Sebastiano Messina. “‘Altro che unico ‘garante del centrodestra moderato’, come si era auto-definito. Altro che “Salvatore della patria’, come l’ha riabilitato Bill Emmott, che nel 2001 titolò la famosa copertina dell’Economist Why Berlusconi in unfit to lead Italy, per poi scoprire sedici anni dopo che era diventato ‘fit’” scrive un Massimo Giannini parzialmente allegro per la sconfitta del suo persecutore Matteo Renzi, triste per il declino del vecchio amico Massimo D’Alema, contento di poter accanirsi as usual sul Berlusca. Ma al di là di Giannini, consideriamo gli altri commenti: non è vero che i grillini sono l’unica forza anti-establishment ad avere avuto un così grande successo, quello di Alexis Tsipras è stato superiore al loro. E’ naturale che un esponente del Partito popolare (tale è “l’orrido” Viktor Orban) dopo le vicende Ema-Amsterdam.Milano, Erdogan-Eni-Cipro, Macron-Libia, Embraco-Slovacchia, Ecofin-Padoan, vice di Draghi-Bce, parli di più a chi non si sente garantito dallo sfrenato egemonismo carolingio, di quell’esponente massimo del fronte franco-tedesco che è Jean-Claude Juncker. Infine, come al solito, il più lucido è Folli quando invita a ragionare sulla realtà effettuale non su quella virtuale che i desideri ti spingono a disegnare. Nulla è più come prima. Assai serio, peraltro, anche il commento-de profundis di Tito su Renzi.