La crisi del mercato alimentare e la soluzione liberista

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La crisi del mercato alimentare e la soluzione liberista

18 Aprile 2008

Si è acceso di recente un dibattito, a livello europeo, tra
diverse concezioni del sistema economico mondiale, che deve far riflettere
anche chi presto governerà in Italia.

La crisi economica e la variazione degli assetti nei
rapporti di potere tra continenti e Stati sta causando infatti gravi scompensi
nel mercato dei prodotti legati all’alimentazione. Negli ultimi decenni ci sono
state varie avvisaglie di un processo di deterioramento degli equilibri
nazionali in questo settore del commercio e della produzione: basti pensare
all’Unione Europea degli sconfinati sussidi alla Francia agricola e delle maxi
multe per le quote latte nel Nord Italia.

Eppure ultimamente, per l’intrecciarsi e l’interconnettersi
di tutti i settori dell’economia, la crisi finanziaria ha avuto echi preoccupanti
anche nelle piazze di molti Paesi in via di sviluppo, che hanno spinto Peter
Mandelson (commissario del commercio dell’Unione Europea) ad affrontare la
tematica, con l’ottimismo legato ad un libero mercato che possa risolvere tutti
i problemi. Sono poi però seguite delle reazioni un po’ più disincantate da
parte dei massimi esponenti di ONG che si occupano dello sviluppo dei Paesi del
cosiddetto terzo mondo.

Le manifestazioni causate dall’impennata alle stelle del
prezzo del cibo sono scoppiate in circa 33 Paesi in tutto il mondo. Ad Haiti il
governo è caduto dopo una settimana di sommosse in cui 40 persone sono state
uccise. Possiamo facilmente ricordare le scene al telegiornale delle sommosse
al Cairo per il prezzo del pane, trasmesse un paio di settimane fa.

In risposta a questo fenomeno, Argentina, Cina, Egitto,
India, Indonesia, Kazakhistan, Malawi, Russia, Serbia, Ucraina e Vietnam hanno
introdotto restrizioni nell’esportazione e totali divieti sulle materie prime
alimentari.

Peter Mandelson si è rivolto al comitato per il commercio
del Parlamento Europeo sostenendo una posizione molto chiara: ovvero mettendo
in guardia i governi dalla tentazione di definire restrizioni alle esportazioni
di prodotti alimentari in previsione del loro rapido aumento di prezzo. Tali
provvedimenti sarebbero la peggiore delle soluzioni che il mondo occidentale
potrebbe tentare, in quanto produrrebbe come unico risultato l’ulteriore
scarsità della materia prima. Una involuzione, insomma, delle politiche
mercantilistiche su un modello ormai passato, che inseguirebbe un’illusione di
“food security”, rallentando tanto la produzione interna, quanto bloccando
rifornimenti esterni, con l’unico effetto di condurre ad una spirale di protezionismo
e riducendo le produzioni.

Insomma un palliativo a breve termine per l’emotività dei
mercati negli Stati con più possibilità, a discapito delle economie degli Stati
in cui effettivamente si soffre e si muore per fame.

“Le tasse di esportazione, le quote o le interdizioni non
hanno un senso dal punto di vista economico o dello sviluppo”, ha aggiunto il
commissario, “per quanto riguarda le merci base agricole, hanno ancora meno
senso”.

Comunque, il commissario ritiene che nonostante le
agitazioni popolari scoppiate in più parti del mondo, l’incremento dei prezzi
del cibo possa essere “un’opportunità per i produttori nel paesi in via di
sviluppo”, più che una preoccupazione per la “food security”, finché i loro
governi apriranno i loro mercati ed i paesi sviluppati apriranno i loro nello
scambio reciproco. “Dare loro i mezzi e i mercati per sviluppare i vantaggi dei
maggiori prezzi è la miglior maniera di indirizzare la questione dei prodotti
alimentari nel lungo termine in particolare per i paesi più poveri” è il succo
del discorso.

Nella stessa ottica, gli alti prezzi per il cibo dovrebbero rinforzare
l’impegno del mondo industrializzato a riformare il sistema dei suoi sussidi
alla produzione, attraverso un patto mondiale di commercio. Il commissario ha
auspicato che un accordo dovrebbe essere raggiunto per mezzo delle discussioni
della World Trade Organisation Doha; sarebbe di particolare importanza per i
produttori dei Paesi in via di sviluppo, perché conterrebbe accordi per
tagliare i sussidi agricoli nei Paesi sviluppati che “distorcono il commercio
agricolo e riducono le opportunità di esportazione”.

Un tale accordo, parallelamente alla firma dell’accordo bilaterale sul
commercio tra paesi ACP (Africani, del Pacifico e Caraibi) ed Unione Europea – gli
European Partnership Agreements – incentiverebbe la produzione di cibo
attraverso l’espansione del commercio agricolo e l’apertura di opportunità di
investimento nell’agricoltura dei paesi del Sud del mondo. Comunque molti paesi dell’area ACP hanno rifiutato di sottoscrivere gli
EPA per il timore di un semplice fatto: l’apertura dei mercati potrebbe far
soccombere le loro giovani industrie, che non possono competere con le assai
più avanzate controparti europee.

Da quest’ultimo, purtroppo più realistico, passaggio si
sviluppano le prime reazioni delle principali ONG per lo sviluppo
internazionale, che addirittura ritengono i tentativi europei di ampliare il
free trade mondiale ad aver contribuito all’attuale crisi dei prezzi del cibo.

Rispondendo alle posizioni del commissario, da Oxfam
International Alexander Woollcombe ha rilasciato dichiarazioni sulla sua
posizione, sostenendo che gli EPA non sarebbero mai stati la soluzione alla
crescita dei prezzi, in quanto avrebbero “limitato” la possibilità di reazione
di un paese in via di sviluppo, che “per affrontare tali imprevedibili
fluttuazioni nel prezzo del cibo, ha bisogno di un certo spettro di strumenti
politici per reagire”.

Nella stessa dichiarazione poi una piccola frecciata agli
atteggiamenti europei è stata rivolta a Mandelson, che predica bene ma razzola
male: “è d’altra parte un po’ sconveniente per l’Europa dare lezioni ai Paesi
in via di sviluppo sui benefici del libero commercio agricolo quando
nell’Unione Europea gli stessi prodotti sono ancora pesantemente sussidiati”.

Dave Tucker, funzionario della compagnia del commercio della anti-poverty
charity War on Want, ha poi fatto eco al dibattito commentando: “un’altra
volta, Peter Mandelson promuove gli accordi per il libero commercio come soluzione
a tutto. Ma l’inseguimento di queste stanche e dogmatiche idee per più di 20
anni ha contribuito ai più seri problemi che i paesi in via di sviluppo stanno
oggi affrontando”.

E proprio qui sta il problema principale di un’Unione come
quella Europea, che propone ancora un modello liberista, peraltro restando ben
lontana dall’applicarlo, e non si rende conto del fatto che il processo di
globalizzazione ha implicazioni molto più sottili di quanto il libero mercato
ed il libero commercio possano comprendere. Così come lo Stato capitalistico si
è sviluppato nell’ultimo secolo con l’introduzione del Welfare State, insomma,
è necessario che un modello analogo si applichi nella politica economica
internazionale: perché nessuno può più permettersi che ci siano scioperi per
fame in India, perché la leadership etica è l’unico strumento che resta alle
democrazie occidentali per garantirsi una stabilità sempre più messa a rischio.
Perché, semplicemente, nell’assenza di un mercato perfetto occorre provvedersi
degli strumenti necessari a compensare le anomalie della realtà.