La crisi ha accentuato il declino italiano ma uscire dal cul de sac si può

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La crisi ha accentuato il declino italiano ma uscire dal cul de sac si può

28 Gennaio 2010

 

A differenza delle cosiddette economie avanzate, i cui prodotti interni lordi sono mediamente diminuiti nel 2009 del 3,2 per cento, i paesi emergenti non sembrano aver subito particolari contraccolpi dalla crisi economica dell’ultimo biennio: i dati del Fondo Monetario Internazionale ci dicono che la Cina è cresciuta dell’8,7 per cento, l’India del 5,6 e l’intero continente africano dell’1,9.

Queste realtà sono cresciute meno dell’anno precedente, ma sono cresciute. E dal 2010 riprenderanno la loro corsa sostenuta verso il benessere e la graduale (ma inesorabile) convergenza con il primo mondo. Quest’ultimo ritroverà quest’anno il segno positivo, recuperando parte del terreno perduto nel 2009 e tornando allo schema “consueto”: l’America crescerà molto di più dell’Europa e, nel Vecchio Continente, la crescita italiana sarà più debole di quella dei suoi vicini.

Non ci avevano detto che “l’Italia sta meglio degli altri”? Semplicemente le cose stavano diversamente, se consideriamo che la caduta del Pil italiano nel 2009 è stata pari a quella tedesca o britannica e più severa di quella francese, mentre quest’anno la ripresa sarà molto più timida. Insomma, tolta la Spagna, travolta dallo scoppio di quella bolla immobiliare che aveva drogato la sua economia, il Belpaese sarà il più lento tra i grandi membri dell’Unione europea. Non ci facciamo ingannare da quel segno “più”: i dati mostrano che la crisi ha accentuato il declino italiano.

E’ svanita l’illusione di chi avrebbe voluto che la crisi potesse – da sola – trasformare il bruco italiano in una farfalla, magari facendo leva sui balzi all’indietro degli altri. E rischia di dimostrarsi poco efficace anche la strategia governativa di conservazione della base occupazionale delle aziende attraverso un uso massiccio della cassa integrazione. Come scrive Francesco Daveri su lavoce.info, negli Stati Uniti, dove il ricorso al licenziamento è stato invece robusto, le aziende hanno attuato rilevanti piani di riconversione produttiva che hanno permesso l’aumento della produttività e dell’efficienza aziendale, il driver della maggiore crescita americana rispetto a quella europea e soprattutto a quella italiana. Probabilmente, avremmo fatto meglio ad investire le risorse pubbliche in favore di “veri” disoccupati – sostenendo il loro reddito dopo il licenziamento e favorendo la loro riqualificazione professionale – e non finanziare un’occupazione “fittizia”.

Come si esce dal cul de sac in cui è piombata l’Italia? Banalmente, come siamo costretti a salmodiare noi Cassandre, con le riforme: dalle tasse al welfare e alle pensioni, dal mercato del lavoro autonomo e dipendente alle liberalizzazioni. La crisi, molti lo dicono ormai da mesi, è un’opportunità come poche per mettere mano ad un piano di modernizzazione. Nell’immediato, questo servirebbe a “redistribuire” i costi della crisi, evitando che essi si concentrino sulle spalle dei lavoratori più esposti (i giovani precari, soprattutto).

Nel medio periodo, le auspicate riforme consentirebbero di infondere nell’economia una dose necessaria di dinamismo. Al più grande partito della maggioranza di governo – che contiene la parola “libertà” nella sua “ragione sociale” – non sarà sfuggita nei giorni scorsi la pubblicazione dei dati sulla libertà economica da parte dell’Heritage Foundation. Come accade ormai da anni, l’Italia si mostra agli occhi degli analisti dell’autorevole think tank d’oltreoceano come uno dei paesi meno liberi d’Europa, oberato da un carico fiscale abnorme e da una spesa pubblica insostenibile, condizionato da una burocrazia inefficiente e attraversata da preoccupanti fenomeni di corruzione (specie al Sud, ma non solo), rallentato da un sistema giudiziario lento ed incerto e dai pesanti vincoli all’attività economica.

Conosciamo da anni le risposte, ma non riusciamo ad avere sufficiente coraggio riformatore e ci accontentiamo del conforto di quegli indicatori ancora positivi per il paese (la ricchezza delle famiglie, il basso tasso di indebitamento privato, il posizionamento dei nostri prodotti nel mercato mondiale). Se non avessimo avuto questa buona scorza – che è merito di una cultura insieme prudente e creativa, la quale esiste non grazie, ma nonostante le regole e la politica – avremmo patito oggi sofferenze maggiori di quelle della Grecia.

Passate le elezioni regionali, ci saranno tre anni di “pax elettorale”: non si voterà, se non per il rinnovo degli organi di qualche ente locale. E’ allora che il Governo dovrà esibire coraggio, disinteressandosi del consenso di breve periodo per dedicarsi a riforme profonde, anche se queste fossero nell’immediato impopolari.

Il declino è reversibile, come dimostra la storia di altri grandi paesi d’Europa, se davvero lo si vuole contrastare.