La crisi manda in tilt le pellicole
17 Ottobre 2008
Sette anni in Tibet? No, questa volta si parla di sette anni a Bombay e invece di Brad Pitt il protagonista è Steven Spielberg. La notizia è dello scorso giugno/luglio e verteva sulla rottura avvenuta tra il colosso americano Paramount e la Dreamworks, casa di produzione fondata dal notissimo regista di Indiana Jones. I suoi progetti erano parsi subito rivoluzionari ed indicativi della crisi endemica che colpiva gli Stati Uniti, l’ennesimo riaffermarsi di una globalizzazione che sta togliendo all’Occidente il suo ruolo di protagonista nell’economia mondiale. Steven Spielberg aveva infatti siglato un accordo con la Reliance ADA Group, colosso indiano delle telecomunicazioni, che prevedeva la produzione di una trentina di film in cinque anni.
Tra l’altro c’era un filo di arroganza nelle dichiarazioni riportate dall’Herald Tribune del 18 giugno, che oggi pare tristemente dimenticata. “Perché gli indiani? – chiedeva il giornalista ad uno dei manager coinvolti nell’accordo – E’ una questione di condizioni. Queste persone sono desiderose di pagare un sacco di soldi per poco più della possibilità di sedersi ad una prima di fianco a Spielberg”.
Ma di questi tempi gran parte dei piani che prevedono il coinvolgimento di finanza e banche si sono complicati. Così è successo che fuggire da Hollywood non abbia salvato Spielberg, ed è di oggi la notizia di un nuovo grande protagonista dell’accordo multimilionario: gli Universal Studios. Il contratto prevede che la Reliance ADA Group sia socia al 50% con un investimento di capitale di 500 milioni di dollari, e che contemporaneamente Spielberg produca fino a sei film l’anno con la Universal, a patto che vengano distribuiti in tutto il mondo tranne l’India. Ma 500 milioni di dollari, per cose di questo genere, sono troppo pochi: e non stiamo parlando solo del fantastico cachet del regista e del suo partner d’affari Stacey Snider (motivo del litigio e dei dissapori con la Paramount), ci riferiamo al fatto che l’operazione ammonti globalmente ad 1,2 miliardi di dollari. Restano insomma 700 milioni di dollari da recuperare.
Tra i convenevoli di Jeff Zucker, presidente della NBC Universal, non passano inosservate le preoccupazioni relative al fatto che 500 milioni di dollari dovessero arrivare dalla JP Morgan Chase, altro colosso di Wall Street, altra istituzione che ha deciso di interrompere le linee di credito finché la situazione non sarà più chiara. Come a dire “prima il dovere, poi il piacere”, l’affare si congela e si aspetta che il mercato riprenda un andamento prevedibile, e che la crisi nera lasci qualche spiraglio di luce agli operatori del settore.
Non per niente qualche settimana fa la United Artists aveva dichiarato di temere un altro blocco di finanziamenti per 500 milioni di dollari garantiti dalla Merrill Lynch, quando quest’ultima era stata rilevata dalla Bank of America, e non per niente Spielberg aveva spostato il baricentro della sua attività lontano dalla California.
La crisi che investe l’alta finanza insomma ha le ricadute più imprevedibili su quella che gli analisti si ossessionano a chiamare “economia reale”. Il sistema complesso di intrecci tra finanza ed ogni tipo di attività di produzione e commerciale ha portato ad una interdipendenza per cui gli Stati Uniti dei milioni di obesi timbrati MacDonald rischiano di fare una figuraccia con l’India dai milioni di poveri timbrati “intoccabili”: un cambiamento di fronte che sembra tanto quel pastisce letterario e pittorico che nel Medioevo si chiamava “Mondo alla rovescia”. Così il cinema ormai centenario di Bollywood, rinomato in tutta l’Asia ma così diverso dal nostro (le produzioni annuali sono di gran lunga più numerose di quelle statunitensi ed europee messe insieme, il mercato è maggiore e anche se si parla quasi sempre di musical o di film molto poco conformi al gusto globale, dopo gli anni d’oro tra i ’40 e i ’60 c’è ormai da quasi un decennio un boom incontrastato di crescita) sembra dare una lezione alla Hollywood delle super star. D’altra parte mentre le spogliarelliste delle City borsistiche fanno la fame e tutti i mass media, nessuno escluso, ci martellano con dati allarmistici di recessione, forse anche a noi viene un po’ meno voglia di andare al cinema. Soprattutto considerando che anche lì, con tutti i film catastrofici ed apocalittici che ci propongono, c’è poco da star su di morale.