La crisi umanitaria in Somalia va fermata prima che tocchi i livelli del ’92

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La crisi umanitaria in Somalia va fermata prima che tocchi i livelli del ’92

02 Agosto 2011

Che a lanciare l’allarme sia la Caritas Somalia o uno dei medici impegnati più che mai in queste ore nel drammatico tentativo di salvare vite umane, il dato di fondo che emerge è unanime: la situazione nel Corno d’Africa sta raggiungengo vertiginosamente i livelli del 1992, quando in Somalia scoppiò la guerra e la malnutrizione causò la morte di 250.000 persone. Oggi, con la guerra che prosegue ininterrotta e il mix di carestia e siccità che si ripresenta in maniera prepotente, già sono decine di migliaia i somali deceduti, con mezzo milione di bambini che soffrono la fame e un quarto della popolazione che è sfollata. Ma anche di fronte a una realtà così cruda, nel Paese africano le ragioni politiche continuano a prevalere sul sentimento di solidarietà umana. Secondo quanto riportato dal New York Times, il gruppo di ribelli filo-qaedisti al-Shabab, che ha in mano gran parte del Sud della Somalia – e cioè l’area in cui la carestia e la siccità si sono abbattute più violentemente – ha deciso di bloccare la fuga della popolazione dalla zona, provvedendo a rinchiudere gli sfollati all’interno di un campo di “acquartieramento”e impedendogli così una via di scampo in altri territori.

Gli Shabab, inoltre, giudicano l’operato delle organizzazioni umanitarie occidentali come un’intromissione nei loro “affari interni” e, pertanto, osteggiano il loro ingresso nel Sud della Somalia. Lo scorso 28 luglio, a Mogadiscio, si è avuto un conflitto a fuoco tra i miliziani e i militari dell’Unione Africana (Amison), scoppiato non appena sono giunti i primi aerei con gli aiuti umanitari inviati dal Pam (il Programma Alimentare Mondiale dell’Onu). Gli scontri sono poi continuati anche negli ultimi due giorni, tra Mogadiscio e il Sud-Ovest del Paese. La capitale somala, infatti, è contesa dalle due fazioni, con il governo di transizione ­– sostenuto dalla missione di peacekeeping – che controlla solo alcune aree della città. La conquista di ulteriori zone, obiettivo dell’Amison, è oltretutto strettamente funzionale all’accesso nel Sud del Paese da parte delle organizzazioni umanitarie. “La Somalia è, in assoluto, uno dei posti in cui è più complicato portare aiuti – dichiara al New York Times l’italiano Stefano Poretti, che dirige le operazioni del Programma Alimentare Mondiale in Somalia – più dell’Afghanistan”, dove lo stesso Poretti ha lavorato di recente. I miliziani Shabab hanno in passato ucciso decine di operatori umanitari e ciò rende pericoloso per le organizzazioni poter lavorare nelle zone sotto il loro controllo. Inoltre, la soluzione adottata dal gruppo integralista di bloccare i profughi per stiparli in campi ad hoc non fa che complicare la situazione, sebbene gli Shabab neghino il fatto che gli sfollati vengano imprigionati  (secondo un portavoce, essi sarebbero invece attratti dal “senso di sicurezza” di queste strutture) e che le agenzie umanitarie vengano minacciate.

In questo scenario, un sostegno può giungere dalle ong islamiche e locali, che non posseggono i livelli di competenza propri delle omologhe organizzazioni occidentali. Le organizzazioni islamiche, d’altra parte, oltre a conoscere meglio il territorio, sono tra le poche autorizzate dagli Shabab ad agire all’interno delle loro zone di controllo. Nei giorni scorsi, i responsabili delle ong umanitarie dei Paesi appartenenti all’Organizzazione per la cooperazione islamica (Oic) si sono riuniti a Istanbul per coordinare il loro piano d’aiuti alle vittime della carestia e della siccità, in un momento dell’anno oltretutto topico per il mondo islamico. Oggi è iniziato infatti il Ramadan, il mese di digiuno previsto dal calendario islamico, e nonostante la situazione della popolazione somala sia al limite dell’umanamente accettabile, non sono pochi i profughi che, accampati nel campo profughi di Dadaab, in Kenya, intendono rispettarlo. Le organizzazioni islamiche, però, sono consapevoli che l’apporto delle agenzie occidentali è indispensabile; l’Oic ha pertanto chiesto agli Shabab di rendere libero l’accesso a chiunque voglia portare aiuti in Somalia, anche a quelle organizzazioni, soprattutto europee e americane, così osteggiate.

Del resto – come ricorda il New York Times – gli Shabab in questi anni hanno ostacolato praticamente qualsiasi aspetto riconducibile all’Occidente: la musica, l’abbigliamento, fino alle vaccinazioni – considerate il mezzo attraverso cui i Paesi occidentali intendono eliminare i bambini somali – con il risultato che moltissimi bambini sono morti di morbillo e colera. Ora che la crisi umanitaria ha raggiunto livelli così eclatanti da non poter essere più ignorata (sebbene persone che muoiono di fame e di sete a migliaia siano in ogni caso da considerare), il mondo ha deciso d’intervenire, sfidando gli ostacoli posti dall’intricata situazione interna al Paese somalo. "È vietato essere indifferenti davanti alla tragedia degli affamati e assetati", è stato l’appello di Papa Benedetto XVI nell’Angelus di domenica scorsa. La speranza è che l’indifferenza non si ripresenti una volta che sia stata ridimensionata la catastrofe umanitaria (e già sarebbe un notevole risultato), ma che al contrario l’attenzione rimanga alta sulla Somalia e sugli altri Paesi del Corno d’Africa (la carestia sta infatti colpendo anche zone del Kenya, del Gibuti e dell’Etiopia), soprattutto per evitare che la frammentazione politica, amministrativa, sociale rigetti in poco tempo intere popolazioni sull’orlo della fame.