La cultura della complicità

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La cultura della complicità

17 Marzo 2012

Molti anni fa un collega universitario, un sociologo boemo che aveva trovato asilo politico nel nostro paese, mi aveva reso partecipe di una sua radicata impressione: che in Italia la comunicazione politica e culturale sia da sempre caratterizzata dalla ‘complicità’, sia sul piano accademico che su quello dei rapporti quotidiani vis-à-vis. "Complicità" bene inteso non come "connivenza", omertà, condivisione di comportamenti illeciti, ma come “furbo sguardo d’intesa”, segno di appartenenza a chi la sa lunga ma non sta certo a dirlo agli altri, a quanti non fanno parte del “noi”.  Sul momento mi parve una boutade, un segno di presunzione proprio di uno studioso troppo sicuro di sé che, dopo qualche anno di soggiorno in Liguria, pensava di aver capito già tutto dell’”itala gente dalle molte vite”. In seguito, però, quell’annotazione mi sembrò, sempre meno peregrina e gratuita giacché, riflettendo, sullo stile comunicativo nazionale, mi accorgevo, quanto pertinente fosse l’attributo della complicità a caratterizzarne la più intima natura.

 Ma come può definirsi la ‘complicità’? Quali ne sono la genesi storico-culturale e la fenomenologia? Per quanto riguarda il primo punto, essa potrebbe dirsi il prodotto di una società civile rimasta estranea e lontana dal sistema politico, sia per il dominio stranero al quale è stata soggetta per secoli, almeno in gran parte della penisola, sia per la posizione di marginalità in cui si è ritrovata, per varie ragioni di ordine economico, politico e culturale, nell’epoca dell’impetuosa avanzata del ‘moderno’ nelle regioni dell’Europa nord-occidentale. Questo ritardo ha dato origine al classico fenomeno della ‘razionalizzazione’: un elemento di debolezza si è tradotto in un preteso elemento di forza ovvero nella fallace consapevolezza che i mutamenti che si verificavano attorno a noi erano mere rappresentazioni sceniche della Storia, alle quali non corrispondeva nessuna sostanza reale. “Nihil novi sub sole”, “plus ça change plus c’est la même chose”: è la consolatoria saggezza dei vinti, di coloro che ‘non prendono parte’ e che mascherano la frustrazione degli esclusi col “tanto non abbiamo perso niente”. La ‘complicità’ nasce dalla supposta capacità di non cadere nella trappola dell’ingenuità, di non prendere per oro colato “le magnifiche sorti e progressive” che i movimenti collettivi e le rivoluzioni culturali preannunciano, di tempo in tempo. E’ la complicità degli ‘apoti’, di quanti non se la bevono e che, in virtù del loro connaturato scetticismo, sono, massimamente allergici alle ‘conversioni’. Lungi dal ritenere tale allergia una virtù nazionale, Massimo D’Azeglio, nei suoi Ricordi, se ne rammaricava non poco:

«La parola conversione suona oggi all’orecchio quasi come un vocabolo di antiche leggende di santi. Dove mai oggidì fra noi si vide o s’udì parlar di una di quelle patenti e ru­morose conversioni che ricordano san Francesco, san Bene­detto, san Girolamo, ecc.? Invece, l’esaltazione religiosa è frequente nelle razze anglo-sassone e tedesca. Fra loro è fatto comune una conversione. Ogni veggente, sia furbo o con­vinto, vi trova tosto gente devota, che pel suo dogma accetta sacrifici e privazioni. Venga invece in Italia un di costoro. Predichi in piazza; avrà quell’uditorio medesimo che hanno i saltimbanchi e che, finito il sermone, si scioglierà, alzando le spalle e dicendo in piemontese: A l’a bon temp, in italiano, E’matto! A prima vista, dovremmo dunque dire ‘Si vale assai più noi che non ci lasciam corbellare’; ma ad andare in fondo alla cosa che si trova ? Si trova che la razza più forte, più morale, più dominante non è la latina con tutto il suo talento, ma è l’anglo-sassone. Ciò prova che non è l’ingegno sottile (l’esprit) quello che forma le nazioni, bensì sono gli austeri e fermi caratteri; che con gente capace di morire per una fede anche storta e stramba, c’è qualche cosa da fare; con gente, invece, non persuasa di nulla, in nome di che o di chi riuscirete a farla muovere, a farla operare, a farla morire?».

 E’ sufficiente questa mezza pagina per capire la profonda saggezza dell’uomo che riteneva gli Italiani ancora “da fare” ma non è di lui che dobbiamo ora occuparci e, quindi, passiamo oltre.

 Individuate, sia pure in maniera sommaria, la genesi storica e le funzioni sociali della ‘complicità’ resta un compito meno difficile ma non inutile, non foss’altro che per difendersi da una tentazione ricorrente, quello di delinearne le caratteristiche. Sul piano del divertissement intellettuale, ne ho elaborato un vero e proprio elenco in dieci punti. Il decalogo è questo e riguarda:

1. ”Le cose che non si possono dire ma che si sa come sono andate”.

Qualche esempio vale più di mille spiegazioni. Tanti anni fa avevo invitato a cena due assessori, di passaggio a Genova, di una regione rossa. A tavola, il discorso cadde sulla legge urbanistica del 1942 e alla mia osservazione che, tutto sommato, si trattava di un buon provvedimento, uno dei due (militanza PCI) aveva commentato:” Certo che era una buona legge, allora c’era chi le leggi le sapeva fare : al governo non c’erano questi farabutti incompetenti che ci ritroviamo ora!”. Inutile dire che in nessuna sezione dei partiti dell’arco costituzionale una simile affermazione sarebbe stata possibile.

2. “Le cose che si debbono dire ma che si sa che non sono vere”.

Mi riferisco qui non tanto alla routine politica—in qualsiasi paesi del mondo, la classe politica, di governo e di opposizione, si trova a dover giurare e spergiurare sul falso, “sapendo di mentire”–quanto ai ‘miti di fondazione’. Se non si è iscritti all’ANPI e non si sta commemorando nessun attentato contro l’occupante nazista, nessuno può seriamente affermare che “la Resistenza ha sconfitto l’invasore e i suoi complici fascisti, riportando la libertà in Italia”. Ad abbattere la dittatura, sono stati la disfatta militare, l’invasione della Sicilia, l’avanzata degli Alleati verso nord. I partigiani (pochissimi, in verità, rispetto al numero degli italiani ‘abili’per il servizio militare) tutt’al più hanno dimostrato al mondo che c’era una parte della nazione intenzionata a dissociarsi dal regime e dalle sue tragedie.

3. “ La distinzione tra ciò che gli avversari dicono e ciò che invece pensano davvero”.

 I ‘complici’, che ne sanno una più del diavolo, credono sempre di sapere che “tra il dire e il fare…” . Quante volte non mi è capitato di leggere, sotto la penna di un mio conoscente, intellettuale militante, già lettore di ‘Repubblica’ e ora iscritto al partito de ‘Il fatto quotidiano’:”ma ve li immaginate Ferrero e Giordano che fanno la rivoluzione?”. Se il nostro furbacchione fosse vissuto ad Arras nel 1788, avrebbe detto al parroco reazionario, che metteva i suoi concittadini in guardia dal giovane Robespierre:” Ma ve l’immaginate quell’avvocato timido e impacciato, che scrive poesie e alleva canarini, alla guida di un sollevamento popolare?”. Sappiamo come andò a finire: il leguleio impacciato,che le pagine dell’Emile e delle Professione di fede un vicario savoiardo intenerivano di caldi sensi umanitari, mise nel sacco vecchie volpi come Camille Desmoulins e impetuosi capipopolo come George Danton. .

4. “La fiducia nella corruttibilità del genere umano”

 Quelli che non si lasciano ingannare dalle apparenze sanno che tutto ha un prezzo e che non c’è uomo su questa terra che non si possa comprare. ”I presunti virtuosi vogliono far credere che sono pronti a dare la vita per la’causa’ ma, poi, se gli offri un ministero o la presidenza di un ente sono disposti a mollare tutto e a passare dalla parte di chi spara sulle barricate. In fondo non si sono visti tanti ribelli passare dalla camicia rossa alla camicia nera e da questa all’abito di gala?”. E’ la vecchia trappola del falso realismo: invece di vedere il mondo in bianco, come i buonisti, i cattivisti lo vedono in nero ma, in entrambi i casi, hanno davanti una realtà immaginaria giacché il mondo è un film in bianco e nero e nella parte bianca (sicuramente molto meno estesa dell’altra) c’è chi si spezza ma non si piega, costringendo il suo ‘tentatore’ a emettere su di lui un giudizio opposto—prima era un gaglioffo ragionevole ora un fesso-peggio-per-lui.

5. “L’identificazione sicura delle persone perbene e degli individui impresentabili”.

 E’ il piano della ‘falsa coscienza’ ovvero della ‘ideologia’di cui anche i ‘complici’, ahimé, rimangono vittime. Come tutti i comuni mortali, essi hanno buone ragioni, fondate sugli interessi o sui valori, per ritenere “che Tizio è così impresentabile che è superfluo esibirne le prove. . ” ma mascherano con l’autoevidenza della verità ciò che per loro è conveniente credere o far credere (e, questa volta, senza esserne coscienti). La virtù non possiede neppure un decimo dell’abilità che mostra la complicità quando sulla lavagna della rispettabilità e dell’affidabilità sociale separa i ‘buoni’ dai ‘cattivi’. Anche perché la prima è cauta nella lode e soprattutto nel biasimo mentre la seconda è avarissima di lodi e prodiga di biasimi e le denigrazioni vengono accolte più facilmente dei riconoscimenti (sui quali il legno storto dell’umanità e i meccanismi dell’invidia sociale gettano sempre un’ombra lunga e spessa. . )

6. “Il dovere di solidarietà tra quanti sanno come va il mondo”.

 Le persone di buon senso, che non credono alle ingannevoli etiche universalistiche, a poco a poco si ritrovano a costituire un “noi”, un campo comunitario che impone, quasi naturaliter, l’aiuto reciproco. Sembra quasi la caricatura dell’intellettualismo etico antico: coloro che ‘si rendono conto’ diventano i ‘migliori’, la conoscenza si traduce in qualità morale (chi sa di più, è più buono) e, progressivamente, in diritto al sostegno da parte dei propri ‘simili’. ”Dobbiamo aiutarci tra di noi se non vogliamo lasciare campo libero a ‘loro’: io faccio entrare tuo figlio all’Università , tu mia figlia alla RAI. Formalmente sullo scambio ci sarebbe molto da ridire ma, nella sostanza, abbiamo reso un buon servizio al paese . In campi diversi,gli abbiamo dato merce buona, persone affidabili…” In tal modo, le elite della società civile possono dormire con la coscienza tranquilla e senza dover correre alcun rischio, né giudiziario, né economico. (Se in una società di mercato, io dovessi nominare tuo figlio amministratore delegato della mia azienda e tu, in cambio, dovessi affidare a mia figlia la direzione della tua rete televisiva, ci penseremmo bene prima di ‘farci il favore’: se i due rampolli, infatti, non sono all’altezza del compito ad essi affidato, sono barcate di soldi che se ne vanno in fumo…).

7. “La consapevolezza che il rispetto delle leggi non deve mai far dimenticare l’antica massima summum jus ,summa iniuria…”.

Talora “ il rispetto puntiglioso della norma può portare al predominio dei furbi e dei malvagi. . ” e in questi casi, si è tenuti a chiudere un occhio sul rispetto puntiglioso delle procedure. E’ vero, si è omessa qualche prescrizione di legge ma di pignoleria si può morire. Eppoi occorre sempre interpretare la volontà del legislatore col criterio del sano buon senso. . Nelle scuole elementari del primissimo dopoguerra, i maestri facevano rapare a zero i bambini affidati alle loro cure, nelle cui zazzere nidificavano spesso e volentieri gli indesiderati pidocchi: quelli appartenenti ai ceti borghesi (piccoli, medi, grandi) erano però esentati, la sporcizia, infatti, non entrava certo nelle loro case. Analogamente, per molti ‘complici’, la tosatura fiscale riguarda le ‘classi brutte, sporche e cattive’ma ricche e, pertanto, se un buon commercialista riesce a evitare ‘dazioni’ troppo pesanti, sarebbe sciocco non approfittarne.

8. “L’orgoglio di dichiararsi la sanior pars della nazione”

I ‘complici’ non si limitano a considerarsi ‘persone perbene’ assediate da individui impresentabili ma, in qualche modo, debbono ricordare a loro stessi e agli altri di far parte di quella elite di cui ogni società che si rispetti abbisogna, al di là delle proclamazioni di principio. Tale ribadita ‘rassicurazione’è un esorcismo per tenere fuori dalla porta o frenare l’irresistibile ascesa degli ‘homines novi’. In genere, sono i funerali spettacolari riservati agli eredi della grandi dinastie industriali che diventano l’occasione per sottolineare il ‘possesso di stile’, da una parte (pur se costituito dall’orologio allacciato sul polsino della camicia. . ),e l’assoluta rozzezza, dall’ altra, (per risalire indietro nel tempo, v. il trattamento riservato al comandante Achille Lauro–di cui, peraltro, si tende a ignorare, che ,come mise in luce un suo avversario politico, P. L. Zullino, indirettamente o direttamente, dava lavoro a 70 mila persone…)

9. “La concezione realistica della democrazia “.

La democrazia è un bene prezioso ma che va custodito nelle cassette di sicurezza di quanti se la meritano. Pertanto “non si può rispettare un verdetto popolare che dia la maggioranza ai bifolchi, ai qualunquisti,alla plebaglia. . ”. Se con un gioco di bussolotti, in questi casi, si può aggirare la volontà popolare, bisogna non farsene troppi scrupoli. Salus rei publicae, supema lex…Questa sindrome, forse, è registrabile dovunque nel mondo, ma la differenza tra “paesi di stile complice” e “paesi di stile protestante” (per utilizzare la divisione suggerita da Massimo D’Azeglio) consiste nel fatto che mentre, nei secondi, il vulnus inferto a un principio solennemente proclamato nelle carte costituzionali ‘fa problema’,è una ferita sempre aperta o, meglio un’operazione chirurgica sempre da giustificare—es. , il non diritto alla secessione da parte della Confederazione del Sud, un non diritto affermato dal Nord con le armi e la guerra civile. . ; nei primi, il problema della violazione di un imperativo etico-politico non si pone neppure; per cui se si dimostrasse, inconfutabilmente, che il referendum istituzionale del 1946 venne manipolato, ci si sentirebbe rispondere: e quand’anche? Dovevamo, forse, tenerci la monarchia complice del fascismo e delle leggi razziali? E oggi dovremmo ritrovarci sul trono d’Italia uno come Vittorio Emanuele IV? Democrazia, suffragio universale, referendum, tutte cose belle sì, ammiccano i complici, ma “con juicio!”.

10. ”Il rispetto ‘dosato’ della religione”.

 Per i ‘complici’ma, senza la sorridente grandezza ‘cinica’ di Voltaire, è meglio che il sarto sia credente:si è più garantiti dalle sue ruberie. I preti debbono solo pensare alla salute delle anime, all’etica pubblica pensano quelli che hanno pratica del mondo. Questi ultimi, però, non sono certo disposti a rifiutare la collaborazione del clero quando se lo ritrovano dalla stessa parte della barricata sociale. In fondo, la ‘cultura della complicità’ sa bene che “il mondo è vulgo” e che, in quanto tale, vive di superstizioni che, a volte, potrebbero tornare utili. Se qualcuno facesse notare che non è lecito adottare due pesi e due misure—compiacersi con la Chiesa quando fa comodo e invitarla a chiudersi tra le sue mura quando mette i bastoni tra le ruote—si sentirebbe rispondere che la coerenza alberga nelle menti dei ‘ puntigliosi del concetto’ ma non nella realtà (presunta) effettuale. La realtà, come la donna, è “mobile qual piuma al vento” e,pertanto, bisogna adeguarsi. Parola di complice!

 

Spedito a ‘L’Occidentale’. .