La donna può essere uguale all’uomo solo in una società di mercato

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La donna può essere uguale all’uomo solo in una società di mercato

12 Giugno 2009

Nel recente volume "Per filo e per segno" (Ed. Giappichelli) Ginevra Conti Odorisio e Fiorenza Taricone hanno raccolto una serie di testi politici sulla questione femminile dal XVII al XIX secolo di indubbia utilità didattica – il volume si rivolge in primo luogo agli studenti universitari iscritti ai corsi di storia della questione femminile – ma di piacevole lettura e, pertanto, fruibile da un’assai più ampia fascia di lettori, interessati alle travagliate vicende che portarono, solo mezzo secolo fa, almeno in Italia, alla piena parità di diritti civili e politici tra uomini e donne.

 Le sezioni in cui il volume è suddiviso ricostruiscono ambienti ed epoche sociali e culturali che consentono di leggerlo, indipendentemente dal tema specifico dei diritti negati e poi via via riconosciuti alla ‘compagna dell’uomo’, come una storia delle mentalità collettive e dei pregiudizi che hanno caratterizzato le varie stagioni della storia dell’Occidente – e che le avanguardie intellettuali maschili e femminili hanno cercato, con alterno successo, di contrastare – e persino come una storia dei costumi, delle istituzioni giuridiche e delle idee filosofiche dell’Europa (e del Nord America) dal XVII al XIX secolo. E’ merito delle curatrici, inoltre, essersi attenute ai criteri canonici delle antologie di una volta che prescrivevano per ogni brano, una prefazione sulla biografia degli autori, non aliena dall’entrare nel ‘privato’ quando esso poteva contribuire a spiegarne atteggiamenti politici e posizioni ideologiche.

Le assenze, che potrebbero rilevarsi – ad esempio, Maria Montessori per l’Italia o Emile de Girardin, per la Francia, non infirmano i meriti e la qualità di un’opera che colma un vuoto inspiegabile in un paese come il nostro così attento ai diritti dei ‘diversi’ e degli ‘emarginati’. Qualche riflessione critica, invece, va fatta sull’ordito concettuale in cui si collocano i dati – fatti, protagonisti, istituzioni, codici – della ricerca giacché le spiegazioni che vengono sottintese di una ineguaglianza e di una discriminazione per noi contemporanei ingiustificabili (non incomprensibili), restano, in ultima istanza, quelle che ne davano i protagonisti, uomini e donne,delle vicende narrate.

Quanto le due curatrici scrivono nell’Introduzione al volume sul metodo e sui problemi sollevati dalla gender history almeno per quanto riguarda la dimensione “politica” – rivendicazione di diritti civili ed elettorali – che è quella cui sono interessate la Conti Odorisio e la Taricone, storiche delle dottrine politiche e delle istituzioni, solleva problemi di non poco conto. Riferendosi alle idee espresse dalle femministe antologizzate nel corso di tre secoli, scrivono: “ In realtà queste idee, queste esigenze sono sempre state presenti, sia pure con forme e obiettivi diversi da quelli attuali. Quello che era sbagliato era dunque fare una storia diversa da quella avvenuta, eliminando le tracce di quanti avrebbero voluto, per la parte femminile della società, una storia diversa. Storicizzare dunque vuol dire mostrare che in ogni epoca le relazioni tra i generi sono state oggetto di analisi, di dibattiti, di contestazione,e che la situazione che si è affermata non ha prevalso perché ‘naturale’ o giusta, ma perché predominante. Senza alcun dubbio questa è la principale lacuna della storiografia tradizionale. Scrivere la storia ignorando questa tematica significa legittimare l’idea che le posizioni normative, i valori culturali di un’epoca siano frutto di un unanime consenso sociale quando in realtà spesso furono il risultato di un conflitto o, quanto meno, di un dibattito”.

 L’argomento è ineccepibile ma, forse, l’invito – a mio avviso quanto mai opportuno – a storicizzare non si riferisce tanto alla consapevolezza che certe sensibilità etico-politiche appartengono al nostro tempo e non a quello degli autori analizzati quanto ai fattori strutturali che pongono certi valori al centro del dibattito pubblico. L’idea di eguaglianza, ad esempio, non nasce con le rivoluzioni atlantiche ma solo in esse attiva forze e movimenti politici. Antifonte di Ramnunte sosteneva già nel V secolo a. C.: “Noi rispettiamo e veneriamo chi è di nobili padri, ma chi è di famiglia plebea, né lo rispettiamo, né l’onoriamo. In questo, siamo diventati gli uni verso gli altri come barbari. Per natura infatti tutti siamo assolutamente adatti ad essere sia Greci sia barbari. Basta osservare le necessità naturali proprie di tutti gli uomini: è ugualmente possibile a tutti procurarsele e in tutte queste nessuno di noi può esser definito né come barbaro né come greco. Tutti infatti respiriamo l’aria con la bocca e con le narici e tutti noi mangiamo con le mani” . Se il sofista greco non era un democratico e questa sua convinzione non si traduceva nella richiesta di diritti per tutti gli appartenenti al genere umano, i contadini inglesi, che sotto il regno di Riccardo II, presero le armi contro i nobili per porre fine a una vessatoria imposizione fiscale e, dopo aver devastato l’Essex e il Kent, occupato Londra e saccheggiato il palazzo arcivescovile furono duramente repressi, avevano fin da allora le idee chiare, quelle che nel 1381 predicava John Ball: «Quando Adamo zappava ed Eva filava | chi era allora il padrone?». Ben quattro secoli prima dell’89, quindi, c’era chi aveva il senso dell’eguaglianza e dei ‘diritti dell’uomo’. E allora?

Compito dello storico è spiegare perché la “contestazione dell’esistente” non ha avuto alcun esito per gli antenati dei levellers e tale compito richiede l’analisi dei contesti sociali ed economici del tempo, del grado di sviluppo delle forze produttive, del tipo di ‘cultura’, nel senso antropologico del termine, delle letture che si davano del messaggio cristiano e della sua natura universalistica. Parlare dell’egoismo dei ceti dominanti, fermi nel non riconoscere alcun diritto a contadini e artigiani, significa addossare i mali del mondo alla ‘natura umana’, dimenticando che non ha senso spiegarli con l’ovvio rilievo che nei rapporti sociali ciascuno tende a riguardare l’altro (schiavo, servo, donna etc.), “come mezzo e non come fine”, per dirla col vecchio Kant. Il discorso si ricolloca sul piano della scienza e della ricerca quando si individuano i contesti istituzionali che obbligano a tener conto dei bisogni e delle necessità dell’”altro”, includendolo nel proprio orizzonte etico e politico in senso lato.

La tesi che intendo sostenere, per quanto brutale possa apparire, è che non può esserci riconoscimento dell’eguaglianza tra i sessi se non in una società di mercato, in cui la produzione di ricchezza e la logica dello scambio creino funzioni sociali e impieghi sempre nuovi, in cui sia apprezzata e stimolata l’innovazione e non sia consentito di tenere le ‘capacità’ inoperose – maschili o femminili, poco importa–, in ossequio a pregiudizi e a visioni della famiglia incompatibili con il progresso economico e culturale dei popoli. Alla luce di queste considerazioni non meraviglia che la Riforma – che Max Weber nella sua opera più nota associava allo ‘spirito del capitalismo’ – oltre a prescrivere una comune istruzione di base per uomini e donne, in grado di consentire a tutti la lettura della Bibbia, rivaluti la sessualità, riconosca alla donna, in fatto di matrimonio, la libertà di scelta e dichiari con Giovanni Calvino, nel suo Commento a Mosè, che bisogna "rifiutare l’errore di coloro che pensano che la donna sia stata creata soltanto per popolare il genere umano"giacché anche il piacere sessuale ha i suoi diritti se iscritto nella natura umana creata da Dio. Ed è forse superfluo rilevare che civiltà olandese del ‘600, su cui lo spirito mercantile e quello riformatore hanno inciso più a fondo, ci presenta, nella grande pittura fiamminga, una condizione della donna appartenente alle classi agiate che non ha riscontro in altre regioni europee.

D’altronde come negare che, nel nostro tempo, i movimenti femministi, indipendentemente dal giudizio che se ne voglia dare, sono tanto più forti e numerosi quanto più le società che li esprimono sono avviate sulla via del capitalismo avanzato, con i suoi modelli produttivistici e consumistici alla cui piena e capillare espansione le donne hanno contribuito come (e forse più) degli uomini? Certo quei modelli non piacciono a molti uomini e a molte donne: il sessismo, la mercificazione del corpo femminile, i diversi trattamenti riservati ai due sessi nei luoghi di lavoro e ancora radicati nei ‘costumi’, le maggiori difficoltà di avanzamento e di carriera sperimentate dal ‘sesso debole’ etc. inducono molta saggistica critica a rimettere in questione la piega presa dall’Occidente negli ultimi secoli e a prefigurare codici e civiltà alternative. Non si vede, però, come all’ ineguaglianza di genere, residuo dell’”età della discriminazione”, sia possibile rimediare con vaghi modelli di sviluppo che facciano a meno del mercato e delle sue logiche. In una società in cui i bisogni diminuiscono drasticamente e con essi le opportunità di impiego e la possibilità di ritagliarsi uno spazio individuale, soltanto un membro della coppia familiare potrebbe trovare lavoro e non è difficile pensare che a ‘ritornare a casa’ sia la donna che mette al mondo i figli ed è meglio in grado di accudirli, almeno nei primi mesi di vita (che poi ci siano padri con un pronunciato coté femminile, e quindi capaci di assolvere meglio a tali compiti, nulla toglie ai probabili scenari che potrebbe presentarsi in un mondo impoverito).

Con questi rilievi, non voglio certo affermare che dalla quantità di ricchezza prodotta socialmente dipende l’affermazione dei diritti della donna. Una ‘società benestante ’è necessaria, sì, ma non è sufficiente altrimenti non si spiegherebbe perché, nei paesi che pur dispongono di elevate risorse economiche – ad es., immensi giacimenti petroliferi – un alto livello di benessere non si sia ancora tradotto nel riconoscimento della parità di diritti tra uomini e donne. Ed è qui che entra in gioco l’altro mercato, quello politico, legato alla lotta per il potere. In tale lotta si manifesta una legge sociologica mai smentita sin dai tempi della contrapposizione, nella Repubblica romana, tra gli ‘equites’ (i cavalieri, l’alta borghesia) e gli aristocratici: quando una parte della classe dirigente è insoddisfatta degli assetti esistenti e della limitata influenza che può esercitare sulle decisioni pubbliche ma non è abbastanza forte per ridefinire i termini della sua collaborazione e del suo sostegno al regime, diventa inevitabile la ricerca di un’intesa con le classi più prossime, prive di cittadinanza politica, promettendo ad esse, in cambio del loro appoggio, diritti civili e politici finora negati. In caso di successo, l’arena politica si allarga agli alleati del partito vittorioso, le mentalità collettive mutano sensibilmente e la giurisprudenza ne prende atto come se i nuovi modi di percepire i rapporti sociali fossero iscritti nella stessa ‘natura’ umana. Non è senza significato che l’età delle rivoluzioni atlantiche, nelle sue diverse fasi, coincida con l’emergere di rivendicazioni sempre più consapevoli e articolate dei diritti delle donne. Soprattutto quando non sono in gioco soltanto i regimi, che riservano a una ristretta minoranza autorità e privilegi, ma è in fase di allestimento una nuova ‘comunità politica’ sulle rovine di un’impero multinazionale e nel tramonto delle agenzie spirituali che lo hanno legittimato nei secoli. La storia delle donne non fa eccezione. Nell’antologia della Conti Odorisio e della Taricone, le rivoluzioni inglese e americana sono lo sfondo storico su cui si stagliano le figure di Mary Astell, di Olympe de Gouges, di Mary Wollstonecraft, di Eleonora Pimentel Fonseca. Le donne che hanno partecipato con profonda convinzione, con i loro scritti e con il loro impegno diretto, all’abbattimento di monarchie non più al passo coi tempi presentano il conto, richiamano il ‘sesso forte’ alla coerenza: se si hanno diritti in virtù dell’appartenenza al genere umano, non possono concepirsi più discriminazioni di genere. Il ‘ritorno all’ordine’ nell’età napoleonica e nella Restaurazione segnano una battuta d’arresto:col venir meno della mobilitazione della società civile e con la drastica riduzione della partecipazione dei citoyens ai processi collettivi, l’apporto delle donne – o meglio delle loro avanguardie coscienti e combattive – non pesa più nella lotta per il potere: il bisogno della loro ‘collaborazione sociale’ viene meno. E’ nei luoghi delle utopie e dei progetti di palingenesi sociale – le scuole di Saint Simon e di Fourier – che possono trovare costruttori di ‘repubbliche immaginarie’ disposti a farsi carico delle loro richieste di riscatto e della protesta contro il dominio maschile. Almeno in Francia, però, quegli utopisti non vivono nell’empireo di Platone: riescono a entrare nelle istituzioni universitarie, nel giornalismo, nell’arte, nella letteratura e, talora, persino a condizionare il potere politico. Attraverso i loro canali, il rivendicazionismo femminile terrà viva la fiamma della sua ‘critica sociale’ e sarà in grado di imporre i suoi problemi nel dibattito pubblico all’interno dello schieramento progressista e liberale.