La dottrina sociale della Chiesa non è contro la globalizzazione

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La dottrina sociale della Chiesa non è contro la globalizzazione

16 Ottobre 2007

Il 2007 è un anno importante
per la storia della moderna dottrina sociale della Chiesa. È l’anno nel quale
celebriamo i quarant’anni della lettera enciclica di Paolo VI Populorum
progressio
(1967) e i
vent’anni dell’enciclica di
Giovanni Paolo II Sollicitudo rei socialis (1987). Con il presente articolo si
intendono evidenziare alcuni elementi concettuali presenti nell’enciclica di Paolo VI che hanno
contribuito allo sviluppo della Dottrina Sociale. Le tematiche affrontate da papa
Montini nella Populorum progressio saranno riprese ed ampliate da Papa
Wojtyla nella Sollicitudo rei socialis (della quale ci occuperemo in un prossimo articolo), il quale
le svilupperà ulteriormente e, in un certo senso, le riordinerà nell’enciclica Centesimus
annus
del 1991, alla luce delle “cose nuove” che hanno rivoluzionato la
geografia politica europea e l’esistenza di milioni di persone in tutto il
mondo.

Tra la fine della seconda
guerra mondiale e il Concilio Vaticano II (1946-1967), l’Europa aveva già
sperimentato un incredibile sviluppo economico che andò sotto il nome enfatico
di “miracolo economico”. Le cause di tale miracolo andrebbero
ricercate nella capacità dei governanti di combinare le istituzioni
democratiche – stato di diritto, libere elezioni e separazione dei poteri – con
gli istituti classici dell’economia di mercato: libera impresa, sistema
competitivo e leggi antitrust. È probabile che la Germania sia stato il paese
in cui tale combinazione ha dato i maggiori risultati, al punto che da
quell’esperienza sono emerse una serie di teorie economiche che per alcuni
avrebbero potuto rappresentare l’alternativa tanto al socialismo quanto al
liberismo manchesteriano. Il riferimento è alla cosiddetta “economia
sociale di mercato”, ispirata da quella particolare versione del
liberalismo continentale, nota come Ordoliberalismus.

Tuttavia, durante il
Vaticano II l’attenzione dei Padri conciliari si rivolse soprattutto alla
situazione di quei paesi le cui economie si mostravano stagnanti, depresse e
bisognose di aiuto. Su questo problema Paolo VI focalizzò la sua attenzione
nell’enciclica Populorum progressio (26 marzo 1967), il cui merito fu
innanzitutto quello di aver individuato un nuovo modo di affrontare i problemi
sociali, comprendendo la necessità di comunicare concretamente e direttamente a
tutti gli uomini del mondo. In secondo luogo, il Pontefice pose il problema
dello sviluppo nei termini di un problema universale che riguarda tutti gli uomini
e tutte le nazioni della terra.

Gli storici concorderebbero
sul fatto che la redazione dell’enciclica fu particolarmente lunga e curata.
Fin dal 1963 Paolo VI avrebbe avviato la raccolta di materiali di vario genere
entro un dossier che aveva intitolato “Sullo sviluppo economico, sociale,
morale. Materiale di studio per un’enciclica sui principi morali dello sviluppo
umano”. Nel 1964 fu preparato un primo testo, a cui seguirono sette redazioni
diverse fino all’approvazione finale avvenuta il 20 febbraio del 1967.

Affinché l’enciclica possa essere compresa nel modo
più autentico, riteniamo sia necessario considerare alcuni elementi di
contesto. In primo luogo il processo di decolonizzazione che in quegli anni
poteva in gran parte dirsi compiuto, sebbene all’indipendenza politica non
sempre seguisse quella economica. In secondo luogo, sotto il profilo
squisitamente economico, l’enciclica si poneva criticamente nei confronti di
una visione eccessivamente ottimistica del mercato concorrenziale, in quanto strumento
in grado di redistribuire efficacemente le risorse scarse. Piuttosto che
evidenziare i possibili aspetti positivi del libero scambio, Paolo VI porrà
l’accento sulle difficoltà che i meccanismi di mercato incontrano nel processo
distributivo e, di conseguenza, verranno sottolineati i limiti del mercato nel
ridurre gli squilibri iniziali.

Il punto di vista dell’enciclica in ambito economico
rifletteva un dibattito molto diffuso all’epoca. Sul banco degli imputati era
posto il divario tecnologico
esistente tra paesi sviluppati e paesi non ancora sviluppati. Tale
disuguaglianza iniziale avrebbe pregiudicato ogni possibile sviluppo per i
paesi più poveri, in quanto il volume delle esportazioni non sarebbe stato in
grado di finanziare le importazioni e, di conseguenza, il finanziamento dei
piani di sviluppo interno. Ecco, dunque, la logica conseguenza lucidamente
esposta dall’enciclica: i meccanismi del mercato andrebbero corretti attraverso
l’azione politica internazionale, volta a ridurre gli squilibri iniziali. Solo
in questo caso i processi tipici del mercato concorrenziale avrebbero potuto
dar vita ad un circolo virtuoso e favorito lo sviluppo economico dei paesi più
poveri

Secondo l’autorevole opinione del Card. Pavan, la
chiave di lettura dell’enciclica andrebbe ricercata verso la fine del
documento, negli ultimi numeri dove si afferma: “Lo sviluppo è il nuovo nome
della pace
”. Un altro illustre studioso di Dottrina Sociale della
Chiesa, il professor Mario
Toso, ritiene che tale celebre dichiarazione di Paolo VI svelerebbe
immediatamente come l’insegnamento di Papa Montini in materia sociale fosse in
stretta continuità con quello di
Giovanni XXIII, ed in particolar modo con l’enciclica Pacem
in terris
. In questo documento, Giovanni XXIII concepisce la pace come un
processo al quale ci si approssimerebbe per gradi, il frutto prezioso
dell’organizzazione di un “tranquillitas ordinis”, nonché il prodotto dello sviluppo ordinato ed orientato al rispetto
della dignità di ciascuna persona. Un ordine globale, dunque, per la
realizzazione del quale si richiede il contributo delle organizzazioni e dei
popoli a livello mondiale. Di conseguenza, sulla scia del suo predecessore,
Paolo VI, si sarebbe interrogato sulle ragioni e le cause dello sviluppo,
conservando e maturando l’idea che lo sviluppo, perché sia rilevante dal punto
di vista della Chiesa cattolica, è necessario che sia pluridimensionale,
ovvero, che interessi oltre alla sfera economica, anche quella politica e
quella etico-culturale.

In definitiva, lo sviluppo economico, per la Dottrina Sociale
della Chiesa, sarebbe parte (rilevante) di una prospettiva antropologica più
ampia della mera
contabilità – in termini monetari – della ricchezza prodotta, tanto a livello
nazionale quanto a livello internazionale. Per questa ragione, per una sua
adeguata comprensione necessiteremmo di criteri di giudizio aggiuntivi rispetto
a quelli forniti dalla scienza economica, criteri che investono il pieno
sviluppo della personalità umana. Di qui una nozione di interdipendenza globale
tra persone e popoli che rivela una prospettiva tutt’altro che pessimistica nei
confronti dei moderni processi di globalizzazione, sia sul piano economico, sia
su quello politico ed etico-culturale.