La falsa tolleranza dei “liberal” americani: predicano libertà di espressione, ma demonizzano gli avversari
09 Luglio 2020
E’ la vecchia storia del poliziotto buono e del poliziotto cattivo. La “ultra-borghesia” progressista negli Stati Uniti ha gettato per anni benzina sul fuoco delle “guerre culturali”, scomunicando qualunque politico e intellettuale non rendesse omaggio alla triadica ortodossia dell’ideologia “diversitaria” alla quale la sinistra post-materialista si è convertita anima e corpo nel ventunesimo secolo (“migrantismo”, genderismo, ambientalismo “gretista”).
Dal 2016 quella classe dominante ha trovato la sua nemesi nella travolgente ascesa di Donald Trump alla Casa Bianca, eretico impenitente rispetto al “pensiero unico” e massimo rappresentante dell’insofferenza della “common people” verso i miti del politicamente corretto dilaganti nelle classi privilegiate del paese.
Ma la lezione non le è servita a nulla. Anzi, lo scontro con la realtà sgradita ha ulteriormente acuito il fanatismo delle sue “avanguardie”. Nei college universitari, nelle redazioni dei grandi media, nel mondo dell’entertainment, si è continuato a gridare imperterriti un giorno sì e l’altro pure al “razzismo”, al “sessismo”, al “negazionismo” per qualsiasi opinione non conforme a quei dogmi, invocando la censura o impedendo attivamente il diritto di espressione a chi la sosteneva, e condannando altrettanto in blocco la storia americana e occidentale come un’ininterrotta scia di discriminazioni, sfruttamento, “offese” alle “identità” minoritarie.
Quando poi, poco più di un mese fa, l’uccisione di George Floyd a Minneapolis ha dato la stura alle ennesime proteste dei gruppi di estrema sinistra come Black Lives Matters e Antifa contro quel che è stata dipinta come una brutalità razzista a senso unico da parte della polizia sui neri, tutta l’intellighenzia “liberal” non soltanto è saltata sul carro dei moti di piazza, ma li ha trasformati in un tentativo di vera e propria “rivoluzione culturale” contro un presunto “razzismo sistemico”, e in un assalto all’arma bianca contro Trump nell’imminenza del nuovo appuntamento elettorale, addebitando al presidente il perseguimento di una sorta di regime di apartheid per la sua difesa di “legge e ordine” contro saccheggi e violenze di piazza. Ne è seguita per l’ennesima volta – ma in dimensioni mai viste prima – la sistematica aggressione a statue, monumenti, personaggi del passato, trascinati in giudizio come colpevoli di razzismo, a cui abbiamo assitito da una sponda e anche dall’altra dell’Atlantico.
E ora? Ora molti intellettuali progressisti si rendono conto che la campagna incendiaria è andata un po’ troppo oltre, e che nelle rivoluzioni ideologiche la deriva giacobina tende a prevalere, moltiplicando le scomuniche, le accuse, le censure anche nello stesso schieramento dei rivoluzionari, facendo ricadere come un boomerang quelle scomuniche sulla stessa classe dirigente ultra-borghese, e inchiodando lo schieramento della sinistra “woke” su posizioni talmente estreme da rendere impossibile un consenso maggioritario, e da provocare al contrario un ricompattamento dell’opinione moderata con quella conservatrice in nome della difesa dei fondamenti della convivenza liberaldemocratica.
Così, l’ala più moderata del progressismo borghese ora cerca di correre ai ripari, gettando qualche secchiata d’acqua gelata sui bollenti spiriti da essa stessa aizzati che ora vorrebbero demolire il “sistema” dalle fondamenta. Lo fa con una lettera aperta “On justice and open debate”, pubblicata da “Harpers’ Magazine” e firmata da decine della più “bella gente” dell’aristocrazia culturale, in un arco che politicamente unisce marxisti, democrats di varia osservanza, liberals indipendenti con repubblicani e neo-con “never-Trumpers”. Tra i nomi più illustri: Noam Chomsky, Martin Amis, Margaret Atwood, David Brooks, Paul Berman, Jeffrey Eugenides, Michael Ignatieff, Mark Lilla, Michael Walzer, Fareed Zakaria. Insomma, una accolita di aristocratici da salotto di prima grandezza.
La lettera, in toni solenni, dichiara che i movimenti per l'”inclusione sociale”, contro il razzismo e per l’uguaglianza sono sacrosanti, ma hanno anche “intensificato una nuova serie di atteggiamenti etici e di impegno politico che tendono ad indebolire le nostre norme a difesa del libero dibattito e della tolleranza verso le differenze, in favore del conformismo ideologico”. Un conformismo, sostengono i firmatari, contro il quale è necessario alzare la voce, difendendo “il libero scambio di informazioni e di idee, linfa vitale di una società liberale”. Occorre dunque lottare rigorosamente contro la delegittimazione, il moralismo, alla censura di opinioni, opere e pubblicazioni “controverse” (orribile termine introdotto dalla “lingua di legno” dell’ideologia politicalcorrettista per marchiare i soggetti sgraditi con il segno dell’infamia), la riscrittura della storia e della cultura del passato in base alle idee politiche del presente. Perché “le idee cattive si sconfiggono con il libero esame, la discussione e la persuasione, non cercando di ridurle al silenzio o spazzarle via perché non ci piacciono”. Occorre dunque “difendere la divergenza di opinione in buona fede”, preservando una cultura “che ci lasci lo spazio per la sperimentazione, il rischio, e anche l’errore”.
Un appello senz’altro nobile e apprezzabile, che rappresenta una boccata d’ossigeno nel clima avvelenato della nuova inquisizione politicalcorrettista, sempre più assetata di sangue e vittime da sacrificare sull’altare delle “magnifiche sorti e progressive”, in America e in tutto l’Occidente.
Peccato però che la ragionevole presa di posizione di tanti intellettuali titolati sia viziata da due macchie non proprio trascurabili.
La prima è che si tratta essenzialmente di una difesa corporativa. I firmatari non stanno tanto battendosi per la libertà di opinione e di pensiero in quanto tale, ma per la propria libertà – in quanto esercitanti la professione di “writers” nello spazio pubblico, dalla letteratura all’accademia al giornalismo – di non essere censurati o additati al pubblico ludibrio. Insomma, hanno paura del “più puro che ti epura”, non vogliono rischiare di fare la fine dei capri espiatori, travolti dal tritacarne della “correctness”. Questo naturalmente è legittimo, ma ci si attenderebbe nel loro solenne pronunciamento anche una più generale difesa del libero dibattito nella società civile, anche da parte dell'”uomo della strada”, che invece non viene nemmeno presa in considerazione. Insomma, secondo i sottoscrittori l’élite intellettuale miliardaria dovrebbe godere della più assoluta “parresia”, ma non è dato sapere se la stessa regola valga per la “plebe” che, magari senza la finezza argomentativa da essa dispiegata, rifiuta i dogmi politicalcorrettisti insistendo ad affermare che “le foglie sono verdi in estate”, per citare la nota frase di Chesterton.
La seconda incongruenza dell’appello, ancora più macroscopica, è che la rivendicazione ferma della libertà di opinione e contraddittorio si fonda qui su un assunto piuttosto singolare: quello secondo cui “le forze illiberali si stanno rafforzando nel mondo e hano un potente alleato in Donald Trump, che rappresenta una reale minaccia per la democrazia”, che contro quelle forze illiberali è necessario opporre resistenza, e che la repressione delle idee avversarie sarebbe propria della “destra radicale”, e dunque non può essere applicata anche da liberali e democratici. Insomma, come primo passo per sostenere la necessità della tolleranza e del libero pensiero si nega legittimità alle posizioni della destra e del leader che la rappresenta, ricoprendo peraltro la massima carica istituzionale nell’Unione. Non sembra molto brillante come base per assicurare il pluralismo.
E’ un atteggiamento che somiglia molto – come quasi tutte le manifestazioni dell’anti-trumpismo – alla pregiudiziale antiberlusconiana in voga nei salotti bene dell’Italia della “seconda Repubblica”. Viva la libertà e la democrazia, ma il nostro avversario è antidemocratico, quindi rappresenta il male contro cui dobbiamo combattere. E allora con chi ci si confronta? Se si dipinge la propria principale controparte, o comunque una parte nel dibattito pubblico, come un pericolo per la democrazia, come si può poi pretendere che qualche “democratico” più zelante degli altri, infiammato dall’amore per la libertà, il progresso, l’uguaglianza, la lotta alla discriminazione, non tenti di tapparle la bocca, di demonizzare i suoi sostenitori, magari di aggredirla e aggredirli fisicamente?
Siamo, qui, ancora di fronte a una concezione della libertà di espressione “controllata”, indelebilmente legata all’accettazione nel circolo delle élites, all’approvazione degli “ottimati”.
Sono le contraddizioni strutturali in seno all’ultra-borghesia, che oggi in Occidente si identifica con la “sinistra”, o anche con la “buona destra” (quella gregaria della sinistra, inoffensiva, e condannata a rimanere minoranza).
Però, signora mia, come sono raffinati questi intellettuali chic! Sanno stare a tavola usando bene le posate, non parlano con la bocca piena, non mettono i piedi sul tavolo come quei buzzurri trumpiani.