La famiglia ai tempi della secolarizzazione

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La famiglia ai tempi della secolarizzazione

La famiglia ai tempi della secolarizzazione

27 Gennaio 2008

Pubblichiamo qui di seguito l’intervento che Gaetano Quagliariello, presidente della Fondazione Magna Carta, ha pronunciato in occasione della presentazione del libro di S.E. Rev.ma
il Cardinale Marc Ouellet, Teologia del matrimonio e della famiglia per la nuova evangelizzazione, edito da Cantagalli.

Per
riconnettere la riflessione suscitatami dalla lettura del libro di S.E. Rev.ma
il Cardinale Marc Ouellet alle mie limitate competenze, vorrei iniziare col
definire il quadro storico nel quale s’inserisce una riflessione che ha un
orizzonte eminentemente teologico: il bisogno di una nuova evangelizzazione al
cospetto di “un’incalzante secolarizzazione” (cit., p. 5). La diagnosi dell’Autore
non lascia spazio a interpretazioni: più le società avanzano nella
secolarizzazione, più il problema indagato dal libro che stasera discutiamo
diventa un campo di battaglia cruciale tra la fede e la cultura dominante”.

Questa
diagnosi pone a chi si accosta a questo libro nelle vesti di storico un primo e
pregiudiziale quesito: è vero che le società si vanno progressivamente
secolarizzando e che questa deriva non possa cambiare? Io ne dubito. E’
certamente vero che le apparenze, alimentate da un progresso tecnologico
addirittura incombente e da una interconnessione dei processi economici,
sociali, culturali che negli ultimi decenni ha viaggiato a ritmi accelerati
quanto mai prima, vanno tutte in questo senso. Ma se si guarda più a fondo, ai
fenomeni che segnano in profondità il divenire sociale, penso che si debba
piuttosto constatare un’inversione di tendenza. I primi segnali in tal senso
datano, a mio avviso, agli anni Ottanta. E sono segnali differenti; alcuni
persino assai pericolosi e sconvenienti come la ripresa di un islamismo
radicale. Ma è un fatto che da allora il paradigma laicista – che nella sua
forma più rozza spacciava la certezza che la religione sarebbe stata
condannata, con l’avanzare del progresso, a un ruolo marginale e
sovrastrutturale – è stato smentito.

Ciò porta
con sé alcune conseguenze. La prima è che questo contesto esterno chiede alla
fede di ritrovare e rivendicare i suoi fondamenti. La posizione di quanti,
anche all’interno della Chiesa, avrebbero voluto relativizzare il sentimento religioso per farlo
progressivamente scadere in un moralismo dai connotati assai mondani, è
divenuta più difficile da sostenere. La seconda
conseguenza è che, in questo nuovo contesto storico, se la fede sarà in grado di rivendicare
questa sua alterità rispetto al mondo secolare potrà, paradossalmente, entrare
più facilmente in contatto con esso e influenzarlo dall’esterno: non come
“surrogato” che si adatta a un contesto di secolarizzazione, ma come
“precipitato” in grado d’esercitare un’influenza culturale indiretta anche su
quella parte di mondo non illuminato dalla fede, ma non per questo rassegnato a%0D
evadere una ricerca di senso.

Il
combinato disposto di questi due effetti mette l’accento su una terza
conseguenza. E la pone nella forma di problema aperto: che la religione non
venga proposta dalla Chiesa come messaggio puramente interiore – che riguardi
cioè soltanto le menti e al più i cuori – ma che essa chieda, anzi pretenda, di
uscire dal ghetto della coscienza individuale per rivendicare una funzione e
uno spazio pubblico, pur nella essenziale distinzione tra il ruolo della Chiesa
e quello dello Stato.

In questo
solco si pone il problema dei sacramenti: quello della loro forma esteriore e
persino quello della disaffezione alla loro pratica. Anche in questo caso il
riferimento obbligato è alla modernità che – nota Ouellet – “ha rotto il legame
tra l’anima e il corpo, l’intelletto e i sensi, la fede e i sacramenti”. E’
certamente vero. Ma c’è in questa dinamica qualcosa di più profondo che
rimanda, ancora una volta, alla convinzione a lungo egemone che la secolarizzazione
sia inevitabile.

Il fatto è
che, a ben vedere, il Novecento non ha negato la forza del simbolo né la
pregnanza del rito in quanto tali. Ha provato a sottrarli alla sfera religiosa,
per acquisirne la forza nel contesto civile. Non casualmente il Novecento è
stato il secolo delle religioni politiche: ogni ideologia – innanzi tutto
quelle totalitarie – si è dotata dei suoi simboli, dei suoi riti, persino dei
suoi sacramenti spesso derivati da quelli della religione ufficiale che,
invece, rigettava. E provando a sbarazzarsi del valore del sacramento come
aspirazione dell’uomo al trascendente (“lungi dall’essere una trasmissione di
verità astratte, la liturgia è la celebrazione di Cristo quale “mistero
rappresentato”), trasferiva il significato del sacramento tutto su questa terra
finendo, inevitabilmente, con l’assegnare al “sacramento laico” un
valore totale, presupposto d’illiberalità quando non proprio di oppressione.

La
ricollocazione del simbolo, del rito, del sacramento in una visione religiosa
ha, dunque, una duplice valenza. Da un punto di vista teologico serve ad
affermare una visione cristocentrica della religione, invertendo la pericolosa
tendenza di creare fedi che si confanno a servire i bisogni dell’uomo, anche i
più contingenti (sul punto le pagine di Ouellet sono quanto mai persuasive). Da
un punto di vista storico-politico, invece, essa ha l’effetto di liberare il
terreno del confronto secolare dagli assoluti dai quali tante tragedie sono
derivate. Mentre l’interazione tra questi due processi tende naturalmente a
promuovere un’idea di ragione meno presuntuosa e, per questo, meno limitata di
quella che l’eredità razionalista ci ha consegnata. Una ragione che esiga
rispetto dalla fede ma che, per questo, non risulti pregiudizialmente ostile al
trascendente e alla fede come possibilità. E’ questa la grande tematica che
domina questa prima parte del pontificato di Benedetto XVI.

Su tale
sfondo si colloca la centralità teologica e storica del sacramento del
matrimonio e, quindi, della famiglia cristiana che da esso deriva. Ouellet
riconosce entrambe le dimensioni del problema. All’inizio del suo trattato
evidenzia, infatti, come “l’obbiettivo immediato sia quello di rovesciare lo
stato di vulnerabilità della famiglia, l’istituzione più minacciata ai nostri
giorni, in una fondamentale risorsa di evangelizzazione”. E più avanti, per
rimarcare la portata epocale della questione, ribadisce: “i problemi del
matrimonio e quelli della famiglia hanno raggiunto proporzioni di vere e
proprie sfide pastorali e culturali che minacciano l’avvenire
dell’evangelizzazione e anzi della stessa civiltà”. Il quadro che viene
tracciato è a tinte quanto mai fosche, al punto che Oullet si dice convinto che
il Concilio stesso non sia stato in grado di intuire la mutazione epocale che
avrebbe esposto matrimonio e famiglia cristiani al rischio di una sconfitta
definitiva.

Alla luce
dell’attualità – in particolare dell’attualità legislativa che mi è più
prossima – è difficile smentire quest’analisi nonché l’allarme che da essa
deriva. La distruzione della famiglia è divenuto un caposaldo necessario di una
nuova pretesa di controllo assoluto di un processo finalizzato alla conquista
della felicità su questa terra che, dopo il fallimento del sogno egualitario, ha come
terreno di sperimentazione non più il sociale ma l’antropologia individuale. E’
la nuova ideologia progressista, non meno pericolosa dal punto di vista
liberale di quelle novecentesche sconfitte.

Tuttavia,
mi sia consentita una nota di relativo ottimismo. A me pare che proprio la
drammaticità della situazione stia ponendo le premesse affinché inizino ad
agire gli anticorpi che la nostra civiltà ha nei secoli prodotto contro la
prospettiva della sua autodistruzione. Ecco perché il nuovo sforzo di
evangelizzazione della Chiesa si può accordare con la preoccupazione di
settori sempre più ampi di quella società secolarizzata che, senza rigettare la
modernità, sanno però individuare i capisaldi su cui quella modernità è nata e
si è sviluppata, e non intendono distruggerli.

Qualche
segno di tale resipiscenza? L’autore ci parla dell’appoggio che Giovanni Paolo
II dovette richiedere alla fine degli anni Novanta alle nazioni musulmane per
bloccare la strategia degli Stati Uniti “clintoniani” d’utilizzo dell’aborto
come strumento per il controllo delle nascite. Sono passati meno di dieci anni
ma il quadro appare assolutamente mutato. Proprio Oltre Oceano si è sviluppato
una reazione popolare che ha influenzato e continua a influenzare la politica,
che ha imposto ai temi della biopolitica un andamento che solo pochi anni fa
era imprevedibile.

La
situazione è senz’altro differente in Europa, che a torto si era pensato
potesse offrire un terreno più fertile a una ripresa religiosa. Tuttavia anche
qui, se si considera il modo di trattare i temi demografici, è necessario
notare che le tendenze neo-malthusiane, se valgono ancora per il Terzo Mondo,
sono contraddette da una preoccupazione crescente per l’andamento delle nascite
nel quadro nazionale e continentale e per le ricadute che esso potrà avere in
termini sociali, economici ed anche identitari. Sicché, inseritosi il germe
della contraddizione, vi è quanto meno uno spiraglio per cercare di demolire
quello che fino a ieri sembrava senso comune inattaccabile.

Infine
l’Italia: per la sua identità, la sua storia e l’evoluzione della sua società,
si tratta di una realtà che si colloca in controtendenza rispetto al resto
d’Europa. La mobilitazione che lo scorso anno si produsse spontaneamente in
occasione del Family Day è, in tal senso, emblematica. Questa diversità è una
ricchezza che va difesa e che dev’essere sfruttata per indurre un ripensamento
negli altri contesti europei. Per questo, da un punto di vista
politico-legislativo l’opera di evangelizzazione che la Chiesa si propone può
essere assecondata se si avrà la forza, innanzi tutto culturale, di non
interpretare la battaglia in favore della famiglia in chiave solo difensiva.

Io non
voglio entrare nella disputa teologica inaugurata dal cardinale Tettamanzi
sulla posizione che la Chiesa deve assumere rispetto ai separati e ai
divorziati, per incompetenza ma anche perché questa disputa non ha riflessi
possibili sul piano civile in quanto nessuno, proprio nessuno, propone di
rivedere la legislazione sul divorzio.

Quel che mi
sembra assai più rilevante è che tra i politici ci sia chi con orgoglio
rivendichi la nostra identità di popolo, per la quale la famiglia ha avuto un
ruolo importante. In questo frangente si deve avere la forza di riconoscere
come l’evoluzione della legislazione positiva sulla famiglia abbia fin qui
tutelato la posizione dei più deboli: i minori e il coniuge sfavorito, che per
lungo tempo è stata la donna. Poiché i diritti non sono materia dilatabile a
piacimento, bensì un gioco a somma zero – se se ne creano di nuovi assai spesso
si limitano quelli esistenti – bisogna far bene attenzione che ciò che è stato
acquisito dai più deboli non sia messo in discussione. Si deve, anzi, avere il
coraggio di non deturpare il modello di famiglia che la nostra tradizione ha
consolidato per offrirlo come riferimento ai “nuovi deboli” che affollano la
nostra società.

Per tanti
nostri concittadini, presenti e futuri, il modello familiare della tradizione
cristiana è un approdo di libertà e di dignità personale: chiunque crede all’universalità
dei diritti umani farebbe bene a non dimenticare le condizioni di prostrazione
morale e a volte anche fisica nelle quali si vengono a trovare minori e donne
in altri modelli familiari e a non tollerarli in nome di un malinteso
multiculturalismo. Non distruggiamo, in nome di un esasperato individualismo
che ha quasi sempre possibilità di tutela già all’interno dell’attuale
legislazione, riferimenti che possano agevolare una già così complessa opera di
integrazione. E, soprattutto, non sacrifichiamo sull’altare di una nuova
ideologia gli spazi di libertà reale e di libertà interiore che, nonostante
tutte le sue storture e i suoi limiti, la famiglia occidentale ha consentito
alla persona.