La famiglia in una società davvero liberale

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La famiglia in una società davvero liberale

29 Marzo 2007

Tra le varie forme di comunità nelle quali l’individuo sperimenta il suo essere persona, una particolare considerazione spetta alla famiglia, autentica scuola di realismo e di autogoverno par excellence.

Il nucleo centrale della nostra succinta riflessione sulla famiglia si fonda sull’affermazione che la famiglia è molto più di una stazione ferroviaria: è una forza autopropulsiva, un potenziale fattore di progresso. La sua sottostima, la sua penalizzazione, il suo indebolimento, anche in termini economici, è molto probabile che finisca per indebolire il tutto. Sulla base di tale considerazione, è lecito chiedersi se la famiglia abbia ancora un ruolo in una società libera, dunque quale sia il suo contributo allo sviluppo umano nella sfera economica, politica ed etico-culturale. Soprattutto, nel mezzo della discussione politica sul senso, il ruolo e la natura della famiglia eterosessuale fondata sul matrimonio, riconosciuta dalla Carta costituzione come cellula fondamentale della società italiana, se la famiglia sia un’entità realmente indispensabile per l’ecologia morale delle istituzioni democratiche e della tradizione liberale.

Nell’esaminare la famiglia in relazione all’ordine economico, prendiamo in considerazione la natura sociale o più precisamente familiare di ciascun individuo; ognuno di noi è determinato non solo geneticamente, ma anche psicologicamente, pedagogicamente e moralmente dalla propria famiglia. La natura familiare dell’uomo si riflette successivamente anche nella motivazione economica che, indubbiamente, sgorga da un proprio interesse razionale; tuttavia esso è capace di andare oltre il mero solipsismo ripiegato esclusivamente su se stesso e occupato solo di sé. Con il noto argomento smithiano che non è dalla benevolenza del fornaio o del macellaio che dipende la possibilità per ogni uomo di nutrirsi quotidianamente di pane e di carne, da un lato possiamo mettere in luce l’interesse razionale che muove la motivazione economica, dall’altro evidenziamo i disagi e la fatica che gli uomini e le donne sopportano, nei loro ambienti lavorativi, non solo per se stessi, ma soprattutto per il bene delle proprie famiglie. Una precisazione importante riguarda, dunque, il concetto di amor proprio o self-interest, il quale include non solo le ragioni del singolo individuo, ma contempla in modo fondamentale i bisogni e le aspettative della famiglia.

Siccome la vitalità economica della società libera dipende dalla capacità che mostrano gli individui in genere e gli operatori economici in particolare di risparmiare e di effettuare lungimiranti investimenti, la famiglia ci appare come una naturale scuola di vita, dove i valori che vengono tramandati non contraddicono, anzi favoriscono la realizzazione dell’ideale della democrazia, del libero mercato e di un pluralismo culturale.

Il ruolo della famiglia non si esaurisce nel ruolo economico, anche mediante la trasmissione della proprietà alla prole, in quanto essa svolge un compito insostituibile anche rispetto all’ordine politico per l’edificazione di un solido sistema fondato sulla libertà e sul rispetto dei diritti di tutti i cittadini. Dal momento che i sistemi fondati sullo stato di diritto si caratterizzano preminentemente per il loro autogoverno, tendiamo ad essere persuasi che le abitudini e i modi di pensare indispensabili alla concezione e alla pratica dell’autogoverno siano meglio insegnati e trasmessi nell’ambito della famiglia, giacché quest’ultima fornisce quel particolare spazio nel quale gli individui possono godere di un io per il governo di se stessi. In altre parole, intendiamo affermare la natura essenzialmente plurale dell’“io”, la cui inalienabile individualità non è affatto mortificata, bensì trova in una possibile “dialettica della reciprocità” il modo corretto ed autentico per manifestare nella storia l’ontologia naturale della persona. Scrive il teologo americano Michael Novak, in riferimento al rapporto all’articolazione della famiglia in una società regolata dal principio di sussidiarietà orizzontale – oltre che verticale: “Tra lo Stato onnipotente e l’individuo indifeso si profila la prima linea di resistenza contro il totalitarismo: la famiglia, indipendente sia economicamente che politicamente, che protegge lo spazio entro cui individui liberi e indipendenti possono ricevere la necessaria formazione”.

In questa prospettiva, in relazione al contributo originale che la famiglia può dare all’edificazione di una società libera e virtuosa, ricordiamo che, come per l’ordine economico e per politico, anche per la sfera etico-culturale la principale scuola di realismo è la famiglia. In essa, ogni uomo fa l’esperienza del proprio limite, della propria vocazione, del proprio ruolo nella società e, in ultima analisi, nella vita. Di fronte alla lunga convivenza che giorno dopo giorno fa emergere i propri e gli altrui difetti, in tutta la loro evidenza e spietata realtà; di fronte alle inevitabili difficoltà della convivenza e dell’educazione dei figli, i sogni e le aspettative di autorealizzazione e di felicità, che sembravano coronare ciò che comunemente viene definito il “giorno più bello della vita”, sono destinati ad infrangersi contro le dure, ma realistiche difficoltà del rapporto coniugale e dell’educazione della prole. Tuttavia, è all’interno della famiglia che si impara l’esistenza di un eroismo ordinario, di una logica della gratuità che al di fuori di essa sarebbe pura follia. Un genitore sarebbe disposto a sacrificare la propria vita per salvare quella del figlio, e normalmente un tale atto è considerato eroico, eccezionale; eppure, considerato nell’ambito di un rapporto genitori-figli, esso diviene ordinario, naturale. Lo stesso discorso vale per atti sicuramente meno straordinari del dare la vita, che, per questa ragione, rientrano nella quotidiana esperienza, ma non per questo non meritano di essere citati come esempi di abnegazione libera, volontaria e gratuita che genitori e figli si prestano reciprocamente: lavorare per procurare il necessario a qualcun altro, pulire e cucinare tutto il santo giorno, cambiare il pannolino, accudire l’anziano genitore.

Inoltre, il nucleo familiare è il luogo nel quale i figli, oltre ad apprendere la logica del dono, fanno propria la lezione dell’autogoverno, dell’indipendenza, della libertà e della legge, il che rappresenta almeno la metà dei requisiti necessari che una repubblica fondata sull’autogoverno richiede ai suoi cittadini. Il presupposto di tale lezione è che la famiglia crea l’elemento fondamentale del sistema economico, politico e culturale: la persona, la quale non è il prodotto della natura, ma una merce tutt’altro che disponibile e diffusa: essa è una risorsa rara, è il punto di arrivo di un lunghissimo itinerario, frutto di una complessa rete di relazioni. La famiglia è una realtà simbolica che non può essere manipolata, poiché se ciò accadesse produrrebbe mostri. La genealogia dell’uomo, la sua capacità d’inventiva, sono il frutto di un complicatissimo cammino che passa per la famiglia, attraverso l’opera educativa che coinvolge congiuntamente sia il padre sia la madre, in una certa distribuzione dei ruoli all’interno dell’istituzione familiare. Il padre in tale distribuzione dei compiti rappresenta il momento della legge e la causa della separazione del bambino dalla madre che fino a quel momento non rappresentava un’entità autonoma, ossia una persona. Qui il bambino impara di non essere la madre e che la madre non è lui. Due sono le leggi fondamentali che il padre insegna al figlio. In primo luogo, egli è maestro della dura regola dello scambio degli equivalenti, in forza della quale nessuno avrebbe diritto di ricevere qualcosa in cambio di niente: il lavoro è lo strumento attraverso il quale ciascuno dovrebbe tentare di guadagnarsi la soddisfazione delle proprie ragionevoli aspettative di vita; in secondo luogo, il bambino dovrà apprendere dal padre il suo essere uno fra molti, dovrà, dunque, accettare di avere la propria parte delle risorse comuni, rispettare l’analogo diritto dei suoi fratelli e, quando sarà grande, dei membri che compongono la comunità sociale alla quale apparterrà. Ma se il padre rappresenta la legge, la madre rappresenterà il momento del dono, dello scambio gratuito. Qui qualcosa è dovuto all’uomo in quanto uomo e non in quanto lavoratore, e la madre è colei che è sempre pronta ad assecondare incondizionatamente i desideri del figlio e a perdonarne tutte le colpe e le inadempienze. Ella, inoltre, svolge una essenziale opera di mediazione tra il padre, che deve comprendere la storicità del destino del figlio, rispettandone la libertà, e il figlio, rassicurandolo sulla vera intenzione del padre, che non è quella di imprigionarlo in una gabbia di doveri e di obblighi, ma quella di aiutarlo a dare realtà al suo desiderio, accettando il cammino che solo può portarlo al compimento.

Il fabbisogno affettivo, che, come abbiamo potuto constatare, è di natura simbolica, non è traducibile in indice monetario e, di conseguenza, difficilmente lo stato lo percepisce o dà prova di saperlo soddisfare. Esiste, per tale ragione, una sfera della gratuità nella quale cresce l’uomo e che l’intervento dello stato non è in grado di supplire, sicché dovranno intervenire soggetti educanti presenti nella società civile. I compiti che tradizionalmente appartengono alla famiglia, come ad esempio l’assistenza agli anziani o ai disabili, il soddisfacimento dei bisogni materiali e la risposta a bisogni di natura affettiva e simbolica, s’incrociano in modo inestricabile, e proprio per questa ragione vanno aiutati e sostenuti con i mezzi necessari. Del resto, è risaputo che lo stato non riesce a rispondere a tutti i bisogni, e quando è tentato di farlo tramite soluzioni di tipo burocratico produce quasi sempre l’effetto dell’inefficienza prima e dell’aumento dissennato della spesa sociale poi, a cui segue, paradossalmente, la diminuzione della soddisfazione dell’utente.

Per questa ragione i credenti cattolici (tutti) hanno a cuore il destino della famiglia in Italia e ovunque nel mondo. Per questa ragione alcuni credenti cattolici (tra i quali il sottoscritto) rivendicano sommessamente il diritto di dissentire democraticamente da proposte le cui conseguenze finirebbero per porre in una zona grigia e indistinta ogni forma di convivenza a prescindere dal genere e dalla forza del legame. Agire significa scegliere e la scelta è sempre tra opzioni alternative. L’optare richiede il giudizio, il quale evidenzia necessariamente un discrimine. Chi non discrimina non sceglie e chi non sceglie non agisce, in pratica è come se si dimettesse da essere umano. Il che ci pare decisamente improbabile. Tutti scegliamo e tutti discriminiamo. I vescovi, con la loro “Nota”, da buoni italiani, non hanno fatto altro che il loro dovere di cittadini responsabili, hanno semplicemente esercitato il diritto/dovere di partecipazione alla vita democratica del nostro Paese, come sta facendo il sottoscritto licenziando il presente articolo.

I politici cattolici che hanno una responsabilità di governo o legislativa, nel merito, potranno essere più o meno d’accordo con la “Nota” dei vescovi (questa volta dovranno comunque motivare il loro eventuale dissenso!), ma non potranno continuare a mugugnare e a lamentarsi se in democrazia dei liberi cittadini si assumono finalmente il sovrano diritto di partecipare alla vita democratica, facendolo nel modo che è loro più consono (e liberale): evidenziando, laicamente, il primato della coscienza, anche dei cristiani impegnati nell’arena pubblica, sulle strategie opportunistiche dettate dalla “ragione-politica”, una ragione imposta dalle segreterie dei partiti (clericalismo partitico). Si tratta di un alto esercizio della sovranità laica e liberale che ripugna l’atteggiamento da sudditi – questo sì clericale – caro a tante forme di “Statolatria” moderne, per le quali il nuovo Leviatano ci consente di