La filosofia di chi vuol rimuovere il crocifisso
16 Novembre 2009
Non intendo tornare sulla complessa questione del crocifisso. Su queste pagine si sono letti commenti corretti ed equilibrati – v. ad es., quello di Gianfranco Amato – e, pertanto, riprendere il dibattito sarebbe davvero ‘pestare l’acqua nel mortaio’ come avrebbe detto il grande Gaetano Salvemini. Può essere invece opportuno mettere in luce le ricadute – non volute e non sospettate – che tale dibattito finisce per avere sul piano non solo giuridico, ma altresì politico ed etico in senso lato. In gioco sono, né più né meno, che i confini della democrazia ovvero gli ambiti entro i quali debbono contenersi le decisioni collettive per non invadere la sfera dei ‘diritti indisponibili’consegnati alle carte costituzionali.
Alcuni giuristi e filosofi politici hanno fatto rilevare, in difesa della sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nella causa Lautsi vs Italia, che alla famiglia di Abano Terme non è stato riconosciuto il diritto a far rimuovere tutti i simboli che potessero offenderne la sensibilità, laica o religiosa, ma quello di veder rispettata la norma costituzionale che vieta allo Stato, in virtù della neutralità rispettosa di tutte le fedi (anche di quella ateistica), di interferire nelle credenze religiose dei cittadini e, pertanto, di imporre culturalmente e visivamente una particolare confessione, giustificando il privilegio con la tradizione, gli usi, i costumi etc. Insomma l’esposizione del crocifisso minaccerebbe le ‘libertà civili’ – a fondamento della ‘Magna Carta’– non i gusti etici o estetici del libero pensatore che, per motivi suoi, ce l’avesse con Cristo e con la Chiesa.
Così si è espressa la Corte:” La presenza del crocifisso può facilmente essere considerata da allievi di qualsiasi età un segno religioso e questi si sentiranno quindi istruiti in un ambiente scolastico influenzato da una religione specifica. Ciò che può essere gradito da alcuni allievi religiosi, può essere sconvolgente emotivamente per allievi di altre religioni o per coloro che non professano nessuna religione. Questo rischio è particolarmente presente negli allievi che appartengono a minoranze religiose. La libertà negativa non è limitata all’assenza di servizi religiosi o di insegnamenti religiosi. Essa si estende alle pratiche e ai simboli che esprimono, in particolare o in generale, una credenza, una religione o l’ateismo. Questo diritto negativo merita una protezione particolare se è lo Stato che esprime una credenza e se la persona è messa in una situazione di cui non può liberarsi o soltanto con degli sforzi e con un sacrificio sproporzionati. L’esposizione di uno o più simboli religiosi non può giustificarsi né con la richiesta di altri genitori che desiderano un’istruzione religiosa conforme alle loro convinzioni, né, come il governo sostiene, con la necessità di un compromesso necessario con le componenti di ispirazione cristiana. Il rispetto delle convinzioni di ogni genitore in materia di istruzione deve tenere conto del rispetto delle convinzioni degli altri genitori. Lo Stato è tenuto alla neutralità confessionale nel quadro dell’istruzione pubblica obbligatoria dove la presenza ai corsi è richiesta senza considerazione di religione e che deve cercare di insegnare agli allievi un pensiero critico. La Corte non vede come l’esposizione nelle aule di scuole pubbliche di un simbolo che è ragionevole associare al cattolicesimo (la religione maggioritaria in Italia) potrebbe servire al pluralismo educativo che è essenziale alla preservazione d’una "società democratica" come la concepisce la Convenzione, e alla preservazione del pluralismo che è stato riconosciuto dalla Corte costituzionale nel diritto nazionale (vedi paragrafo 24). La Corte ritiene che l’esposizione obbligatoria di un simbolo confessionale nell’esercizio del settore pubblico relativamente a situazioni specifiche che dipendono dal controllo governativo, in particolare nelle aule, viola il diritto dei genitori di istruire i loro bambini secondo le loro convinzioni e il diritto dei bambini scolarizzati di credere o non di credere. La Corte considera che questa misura violi questi diritti poiché le restrizioni sono incompatibili con il dovere che spetta allo Stato di rispettare la neutralità nell’esercizio del settore pubblico, in particolare nel settore dell’ istruzione”.
Per i magistrati di Strasburgo, quindi, abbiamo a che fare con una materia sulla quale nessuna presa potrebbero mai avere la democrazia e il principio di maggioranza. Rileggiamo il par. su citato:” L’esposizione di uno o più simboli religiosi non può giustificarsi né con la richiesta di altri genitori che desiderano un’istruzione religiosa conforme alle loro convinzioni, né, come il governo sostiene, con la necessità di un compromesso necessario con le componenti di ispirazione cristiana. Il rispetto delle convinzioni di ogni genitore in materia di istruzione deve tenere conto del rispetto delle convinzioni degli altri genitori. Lo Stato è tenuto alla neutralità confessionale nel quadro dell’istruzione pubblica obbligatoria dove la presenza ai corsi è richiesta senza considerazione di religione e che deve cercare di insegnare agli allievi un pensiero critico”. Ad essere consequenziali, questo stile di pensiero dovrebbe portare all’azzeramento non solo in Italia ma nel mondo , soprattutto negli Stati Uniti, di ogni riferimento alla trascendenza, per quanto vago e slegato da chiese e sette determinate. In sostanza, nel Nord America, perderebbero ogni legittimità la ‘religione civile’, il giuramento sulla Bibbia, il motto In God We Trust che ha sostituito da tempo l’altro, più laico e secolare, e pluribus unum. Né il rasoio giudiziario si fermerebbe qui giacché, a ben riflettere, esso comporterebbe, altresì, il tramonto dello stesso liberalismo occidentale, che nei suoi maggiori pensatori, da Locke a Montesquieu, da Constant a Tocqueville, da Minghetti a Einaudi, passando per lo stesso non credente Benedetto Croce, non avrebbe mai sottoscritto una legge intesa a rimuovere i crocifissi dai luoghi pubblici. “Peggio per loro” si dirà né si mancherà di far rilevare che l’”argomento d’autorità” non ha mai fondato un diritto, altrimenti ci terremmo ancora la schiavitù avendo il “maestro di color che sanno”, Aristotele appunto, legittimato e giustificato quell’istituto.
Sennonché non se ne esce tanto facilmente. Lo Stato, infatti, non è, neppure nella visione dei libertari( almeno di quelli più ragionevoli), un semplice mediatore tra interessi individuali e di gruppi in conflitto, un regolatore asettico del traffico sociale: è il ‘braccio armato’ di una ‘comunità politica’ e questa non è fatta solo di risorse materiali da amministrare e da distribuire ma, altresì, di valori, di progetti di vita, di costumi etici, di codici d’onore etc. Ogni comunità ha una sua identità che intende preservare e consegnare alle generazioni future e tale identità è un prodotto della tradizione, non di una sola tradizione ma di tutte quelle, spesso anche nemiche, che hanno concorso a quella “enorme transazione” in cui Carlo Cattaneo vedeva la natura della società moderna. In una società democratica quei valori non sono imposti dall’alto ma, in notevole misura, scelti dai cittadini non direttamente ma attraverso gli uomini e i partiti che i loro voti hanno eletto in Parlamento e mandato al governo. Una nazione, ad esempio, può ritenere che lo studio dei classici, lo spirito che emana dalle opere di Platone, di Aristotele, di Cicerone, di Seneca etc. sia essenziale per la formazione della classe dirigente e, in genere, delle professioni più rilevanti per la sua ‘tenuta civile’. Di qui quella cultura da “gentiluomini di campagna” che l’avanzare delle scienze e delle tecnologie ha fatto riguardare con malcelata ironia. Ma se la politica dell’istruzione decisa da un ceto politico, culturalmente ‘classicista’ e conservatore ma legittimato dal suffragio popolare, continuasse ad orientare gli studi, il ministro dell’educazione nazionale avrebbe o no il potere di chiedere ai presidi l’esposizione dei busti o dei ritratti di Marco Tullio, di Socrate, di Virgilio nei corridoi scolastici, nelle aule e nell’aula magna? E quelle immagini quale altro significato avrebbero se non quello dell’omaggio reso a (vere o presunte) ‘radici’, ai mattoni culturali su cui si è costruito un sapere storico e di cui ancora si nutre l’immaginario collettivo (nei paesi occidentali, i nuovi nati non continuano ancora a chiamarsi Marco, Mario, Augusto, Paolo, Emilio etc.)? Una minoranza non occidentale, in tal caso, emigrata nel paese con il culto delle nostre antichità, avrebbe potuto dire: noi non abbiamo nulla contro la vostra cultura ma chiediamo ai responsabili dell’istruzione di non esporre ai nostri figli ritratti e simboli di una storia che non è la nostra, di un passato che non ci appartiene e che ci fa sentire stranieri e discriminati. In fondo gli ispano-americani, negli Stati Uniti, non hanno chiesto di farla finita con Shakespeare ai loro occhi espressione di una razza dominatrice e ricordo costante di una conquista che costò lacrime e sangue? E perché altre etnie culturali, in Italia, non potrebbero esigere di “farla finita” con Dante e con tutto ciò che il ‘divino poeta’ rappresenta?
Hegel aveva scritto:” L’universale nel suo significato vero e comprensivo è un pensiero del quale si deve dire che ci sono voluti millenni prima che esso entrasse nella coscienza degli uomini e che solo attraverso il cristianesimo è giunto al suo pieno riconoscimento. I Greci, pur dotati di una così alta cultura, non hanno conosciuto Dio nella sua vera universalità e neppure l’uomo. Gli dèi dei Greci erano soltanto le potenze particolari dello spirito |…|Così pure sussisteva allora tra i Greci e i barbari un abisso assoluto, e l’uomo come tale non era ancora riconosciuto nel suo valore infinito e nei suoi diritti infiniti». Una società moderna, la cui leadership politica e intellettuale, ritenesse fondata la teoria del principe dell’idealismo tedesco, potrebbe liberamente decidere che il simbolo della croce vada esposto in tutti i luoghi pubblici o sarebbe vincolata da una laicità vuota e asettica per la quale non avrebbe alcun senso la filosofia sottesa al culto di Santa Croce nei ‘Sepolcri’ di Ugo Foscolo?
Insomma la questione del crocifisso mette in campo non solo i diritti dell’uomo come ‘essere generico’ – quell’uomo che de Maistre diceva di non aver mai incontrato in vita sua – ma, altresì, il diritto all’identità,da un lato, i diritti della democrazia, dall’altro.
Riportando la concezione etico-giuridica dei governi (adopero il plurale giacché non è solo quello ‘reazionario’ italiano a volere il crocifisso), la Corte di Strasburgo così la riassume:” Se il crocifisso è certamente un simbolo religioso, riveste tuttavia anche altri significati. Avrebbe anche un significato etico, comprensibile ed apprezzabile indipendentemente dall’adesione alla tradizione religiosa o storica poiché evoca principi che possono essere condivisi anche da quanti non professano la fede cristiana (non violenza, uguale dignità di tutti gli esseri umani, giustizia, primato dell’individuo sul gruppo, amore per il prossimo e perdono dei nemici). Certo, i valori che fondano oggi le società democratiche hanno la loro origine anche nel pensiero di autori non credenti e addirittura opposti al cristianesimo. Tuttavia, il pensiero di questi autori sarebbe intriso di filosofia cristiana, a causa della loro istruzione e dell’ambiente nel quale sono stati formati. In conclusione, i valori democratici oggi affonderebbero le loro radici in un passato più lontano, quello del messaggio evangelico. Il messaggio del crocifisso sarebbe dunque un messaggio umanista, che può essere letto in modo indipendente della sua dimensione religiosa, costituito da un insieme di principi ed di valori che formano la base delle nostre democrazie. Il crocifisso, rinviando a questo messaggio, sarebbe perfettamente compatibile con la laicità e accettabile anche dai non cristiani e dai non credenti, che possono accettarlo nella misura in cui evoca l’origine di questi principi e di questi valori. In conclusione, potendo il simbolo del crocifisso essere percepito come sprovvisto di significato religioso, la sua esposizione in un luogo pubblico non costituirebbe in sé un danno ai diritti e alla libertà garantiti dalla Convenzione”.
Sotto il profilo democratico mi è difficile capire perché a sostegno di una posizione del genere non sarebbe lecito ricorrere alla conta delle teste e decidere democraticamente se rendere omaggio, col simbolo della croce, ai valori contenuti nei Vangeli–” non violenza, uguale dignità di tutti gli esseri umani, giustizia, primato dell’individuo sul gruppo, amore per il prossimo e perdono dei nemici”. Le comunità politiche, ripeto, non sono soltanto ‘società’ caratterizzate da precisi ‘contratti costituzionali’ e regolate da codici neutrali di diritti e di doveri: sono anche ‘grandi famiglie’ che, in quanto tali, vengono gratificate simbolicamente dalla messa in mostra delle fotografie degli antenati e di quanti hanno contribuito, nel bene e nel male, a renderle quali sono. Nella storia, beninteso, non c’è nulla di eterno: se a Milano la comunità islamica fosse tanto numerosa quanto quella italiana o europea, la ‘religione civile’ dovrebbe–ma in virtù della democrazia e della legge del numero non di diritti universali in capo a ogni essere che abbia sembiante umano–subire profonde trasformazioni. Accanto alla croce potrebbero venire appesi alle ‘bianche pareti’ degli edifici pubblici i versetti del Corano e nelle scuole, quanti studiano filosofia, potrebbero essere liberi di preferire Avicenna a Platone. (Anche allora,tuttavia, al fine di preservare il garantismo, nessuno potrà venire obbligato a partecipare a riti religiosi – siano cristiani o musulmani – che per la sua ragione sono manifestazioni superstiziose).
In conclusione, dal dibattito sul crocifisso come dal cilindro del prestigiatore escono fuori tutti gli antichi dilemmi che hanno segnato la storia del pensiero politico e giuridico europeo e occidentale. A cominciare dal principio, caro ai critici della sovranità popolare, che “la maggioranza non può tutto”. Certo che non può tutto, ma non può neppure rinunciare ai ‘contenuti spirituali’ – non eterni, beninteso – che fanno di un “popol disperso che nome non ha” una nazione, una ‘comunità di destino’. Una maggioranza che, nel rispetto delle minoranze, prendesse troppo alla lettera la “laicità” – nozione, peraltro, non poco ambigua – si ritroverebbe in uno spazio desertico, svuotato di ogni valore forte. E ,d’altro canto, uno Stato, che sempre in nome della ‘laicità’, non solo non riconoscesse nessuna, sia pur vaga, ispirazione religiosa ma la espellesse dagli istituti educativi e da ogni altro luogo pubblico, dovrebbe riservare lo stesso trattamento anche alle ‘religioni ‘politiche’, che sono religioni anch’esse in quanto esigono talora dagli individui, il sacrificio della vita e della libertà in nome di una mistica, patriottica o rivoluzionaria che sia. Un prestigioso liceo romano s’intitola a Giulio Cesare, un personaggio storico che, nell’ottica del ‘republicanism’, incarna lo ‘spirito di conquista e di usurpazione’ esecrato da Benjamin Constant. Un libertario coerente non dovrebbe vedere nel simbolo liberticida elevato agli onori degli altari (laici) una palese violazione della ‘neutralità’ dello Stato? Insomma stiamo parlando di cose che riguardano la società civile, le sue sensibilità,le sue tradizioni, gli usi che intende fare del passato e le innovazioni che intende sperimentare nel presente : la pretesa del diritto di sottrarle al processo democratico, per rinchiuderle nella cassaforte dei ‘diritti indisponibili’, è un ulteriore segno della diffidenza (aristocratica) per le maggioranze, capricciose e volubili , l’ennesimo tentativo del diritto di tenere la politica sotto tutela.