La finanza etica non abita né a Dubai, né ad Abu Dhabi (o nelle vicinanze)

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La finanza etica non abita né a Dubai, né ad Abu Dhabi (o nelle vicinanze)

01 Dicembre 2009

La crisi che ha colpito la Dubai World, la maggiore compagnia finanziaria di Dubai ha aperto un nuovo fronte di preoccupazioni nella finanza internazionale con riguardo alla finanza islamica. Con questa espressione intendo quella realtà complessa composta sia di banche che praticano la finanza islamica, sia di fondi sovrani che effettuano investimenti esteri con i proventi dello stato ricavati dal petrolio o da altre fonti del mondo islamico arabo e sia le holding che effettuano investimenti sul territorio nazionale degli stati arabi in relazione al loro sviluppo turistico e commerciale e che operano, in modo analogo, all’estero, come appunto la Dubai World.

Sino ad ora questo insieme di operatori finanziari e bancari appariva supersicuro e gli investimenti nei paesi arabi di riferimento apparivano molto interessanti e poco rischiosi, anche perché si pensava che fossero garantiti dagli stati a cui questi soggetti finanziari appartengono. Ora il quadro risulta cambiato. La finanziaria Dubai World che dichiara una esposizione complessiva di 80 miliardi di dollari ha chiesto la moratoria sui suoi debiti in scadenza di una sua affiliata. Ma forse l’importo complessivo è di 100 miliardi. Si tratta di una cifra consistente (pari al 6,6 per cento del Prodotto Interno Lordo Italiano).

Certo  siamo ben lontani dai problemi di insolvenza che hanno innescato la grande crisi da cui il mondo sta uscendo a fatica, che riguardavano (e in parte ancora riguardano) cifre di oltre trenta volte tanto. Inoltre La Dubai World non è una banca, quindi il suo eventuale dissesto non lede direttamente la reputazione di solvibilità del sistema creditizio del mondo islamico e tanto meno quello internazionale. Le banche esposte con questa compagnia finanziaria sono un numero rispettabile e ciò comporta che le perdite derivanti da un eventuale crack di Dubai World si possano ripartire su tanti istituti. Si può però aggiungere che  le banche che hanno fatto più finanziamenti a questa holding statale dell’emirato arabo sono quelle inglesi, che già hanno subito altre perdite. Inoltre la catena dei prestiti e delle garanzie su di essi include molti soggetti, per entità di esposizione variabili, che in parte notevole non si conoscono. Così accanto alle perdite note ci sono i rischi di virus che hanno infettato altri soggetti di cui non si sa e si sospetta. E ciò genera un nuovo malessere nel sistema bancario mondiale.

Si accresce  sia pure di poco la percezione del rischio nel sistema bancario. Le conseguenze sulle economie industriali sviluppate di questi eventi, comunque, non si possono paragonare a quelle del crack di Lehman Brothers che aveva una entità molto maggiore. Anche questa banca di investimento operava come assicurazione garantendo i prestiti di molte istituzioni (forse anche una parte dei prestiti a Dubai World). D’altra parte, il parallelo con Lehman Brothers consiste nel fatto che il governo di Dubai non è disposto a intervenire in aiuto di questa holding, analogamente a ciò che ha fatto Washington con Lehman Brothers. Bisogna aggiungere che quando questa banca americana fu lasciata al suo destino il sistema finanziario internazionale non era entrato nella profonda crisi in cui è poi si è trovato. Il crack eventuale di Dubai World invece avverrebbe ex post. E  il sistema delle banche occidentali non è proprio bisognoso di altre ferite.

Le speranze di Dubai e della finanza occidentale ora è rivolta ad Abu Dhabi in quanto fa parte degli emirati arabi ed è ricca. Dubai non ha quasi petrolio e i suoi investimenti (non solo quelli di Dubai World) sono finanziati in parte con denaro dei fondi sovrani di Abu Dhabi e di altri stati arabi e in parte da banche occidentali e asiatiche. Il denaro che a Dubai si investe, quindi, è in gran parte preso a prestito. Invece Abu Dhabi  è ricco di petrolio e il suo fondo sovrano trabocca di soldi veri costituiti dalle royalties ricevute dalla famiglia dell’emiro, centinaia di miliardi di dollari. Ma quella di Dubai World non è una momentanea crisi di liquidità: è una crisi sostanziale perché il denaro che essa ha ricevuto non è stato impiegato con la saggezza che ciò avrebbe comportato. I grattacieli di Dubai destinati ad hotel e a uffici di operatori del mondo arabo che confluiscono in questo piccolo stato, per incontrarsi tra loro e per essere liberi di vestirsi, di cibarsi e bere con i modi permissivi occidentali anziché con quelli mussulmani, sono costati molto nella costruzione e nell’arredamento. E costano molto nella gestione, anche perché l’acqua che essi usano in abbondanza, è ricavata con costosi impianti di desalinizzazione. Sino a pochi anni fa questi Hotel si reggevano, oltrechè sulla clientela araba, anche su una clientela occidentale di lusso dotata di denaro facile, guadagnato con i bonus bancari e con le speculazioni in borsa di ogni specie. Questa clientela si è molto assottigliata negli ultimi due anni mentre l’offerta alberghiera e quella di divertimenti e nuovi uffici si dilatavano sulla base della ipotesi di crescita continua della domanda che e stata fatta. E parecchie costruzioni sono rimaste a metà o tre quarti. Così gli investimenti della Dubai Holding si rivelano sbagliati. E per una parte dei prestiti che essa ha fatto, essa non riceve gli interessi e le quote di ammortamento preventivate. E non può, a sua volta, pagare i propri debiti. Per di più la holding ha fatto anche investimenti internazionali molto ambiziosi con denaro a prestito. E anche su questi impieghi di denaro i guadagni sono inferiori alle previsioni, data la crisi in atto.

La banca centrale degli emirati ha assicurato che essa è in grado di intervenire, ma dato che Dubai World non è una banca è chiaro che la banca centrale degli emirati potrà intervenire  solo a favore di soggetti bancari appartenenti alla sua giurisdizione che decidano di offrire un aiuto finanziario a questa holding o a società da essa partecipate. Non sembra che a Dubai ci siano banche in grado di fare interventi della dimensione desiderata. E la richiesta di  soccorso ad Abu Dhabi per ora non ha ricevuto alcuna riposta chiara. Nonostante che siano passati cinque giorni da quando è scoppiata la crisi, non ci sono notizie di incontri fra operatori dei due emirati, riguardanti il tema.

Un crack generalizzato di Dubai, d’altra parte è escluso, in quanto il governo di Dubai ha dichiarato che Dubai World non è una holding statale e non è garantita dallo stato, che si è limitato a darle sovvenzioni per le sue iniziative. Ciò mentre risolve il problema dell’immagine complessiva di Dubai dal punto di vista finanziario immediato, accresce il rischio di dissesto di Dubai World. Occorre tenere presente che i beni in cui questa holding ha investito non possono dare un rendimento commisurato al capitale speso, neanche passata la crisi. E pertanto sarà grande la tentazione di lasciare che vada al fallimento una parte delle società operative di questa holding. Ciò farebbe ricadere sugli occidentali che le hanno prestato il denaro, stimando che gli investimenti nella finanza araba siano sicuri, una parte sostanziale dei costi della grande “illusione” che essi, insieme con questa finanza, hanno contribuito a generare ed espandere. Ma l’atteggiamento scarsamente cooperativo della finanza araba – di natura islamica o non – dà un brutto colpo al sistema finanziario in questione.

La crisi ha avuto, almeno lunedì, una evidente ripercussione negativa sulle borse di Dubai e di Abu Dabi. Ed è  degno di nota il fatto che lunedì, la caduta delle quotazioni ad Abu Dabi abbia raggiunto il 10 per cento e a Dubai  lo 8 per cento. Probabilmente si comincia a pensare che oltre a Dubai World ci possono essere altri titoli gonfiati nel mondo degli emirati e dintorni. La bolla immobiliare è evidente. Ma ci può essere anche una bolla speculativa di borsa. Quanto alle  istituzioni del mondo finanziario arabo ora sta emergendo che il miscuglio fra banca di tipo occidentale e banca islamica non è migliore del sistema che ha fatto crack a Londra, negli Usa e nel Belgio e Olanda. Inoltre nonostante che nella dottrina etica islamica il tasso di interesse sia considerato per sua natura una forma di usura non lecita, appare chiaro che esso nella finanza di questi stati gioca un ruolo molto importante. Dubai World ha chiesto una moratoria in relazione agli interessi che non è in grado di pagare. Non pare che sia emersa una  grande solidarietà delle banche dei paesi fratelli. La finanza etica non sembra abitare né a Dubai, né ad Abu Dabi o nelle vicinanze.