La fine del modello europeo

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La fine del modello europeo

01 Marzo 2012

Il presidente della Banca centrale europea lo ha detto in un modo che più chiaro e diretto non poteva essere: il modello sociale europeo è morto, superato, come dimostrano innanzitutto i drammatici tassi di disoccupazione giovanile che in alcuni paesi, come la Spagna, sfiorano il 50%.

La crisi dei debiti sovrani che sta attraversando tutta l’Europa non è una crisi congiunturale. È il punto di approdo finale di un modello di sviluppo che dal secondo dopoguerra ad oggi ha consentito crescita stabile, benessere sempre più diffuso, livelli molto elevati di protezione sociale.

Tutto questo è stato ottenuto con una crescente accumulazione di debito che gli Stati hanno progressivamente contratto, nella convinzione dei responsabili politici e monetari delle nazioni europee che non potesse esistere il fallimento degli Stati. L’esperienza dell’Argentina di qualche anno fa e la condizione attuale della Grecia hanno reso evidente a tutti che anche la sovranità statale è limitata e, nel mondo globale dove i mercati sono sovranazionali, il default non solo è possibile, ma talvolta è addirittura salubre.

La prima conseguenza di questo cambiamento epocale è la fine del tempo in cui – come diceva l’economista Rudi Dornbusch – gli europei sono così ricchi che si possono permettere di mantenere chiunque per non lavorare. È cioè finita per sempre l’idea che il reddito sia un diritto fondamentale, idea non sancita nelle leggi ma fortemente radicata nella testa dei nostri contemporanei.

La illimitata estensione della protezione sociale, infatti, si alimentava dalla considerazione che le società occidentali a capitalismo maturo avevano margini pressoché illimitati di crescita. E che la recessione fosse un evento eccezionale.

La globalizzazione da una parte e la convinzione degli europei che il loro benessere fosse assicurato per sempre, hanno reso il modello europeo di sviluppo e di produzione di beni e servizi sempre meno efficiente. Fino al punto di bloccare la crescita per eccesso di tassazione, di rigidità del mercato del lavoro, di scarsa competitività delle merci prodotte sia in termini di prezzo che contenuto tecnologico.

Mari Draghi è forse il primo a rappresentare propriamente la crisi europea. Essa non è la crisi dell’euro, ma la crisi strutturale dell’Europa. Lo dimostra il fatto che le maggiori difficoltà si registrano in quei Paesi che si sono indebitati oltre misura o che hanno avuto l’ambizione di fornire, anche se in maniera inefficiente, una amplissima serie di servizi ai loro cittadini, attraverso la crescita costante della spesa pubblica.

L’aumento della vita media e il progressivo invecchiamento delle popolazioni hanno reso sempre meno sostenibili i generosi sistemi di welfare fondati sul monopolio pubblico dei servizi.

La soluzione possibile sta probabilmente nel passare da sistemi che promettono ai cittadini di dar loro tutto grazie ai contributi che versano con le imposte, a sistemi molto meno generosi ma in grado di sostenere i cittadini a ottenere servizi di protezione sociale e sanitaria attraverso strumenti di carattere assicurativo. E questa impostazione dovrebbe valere per i più rilevanti capitoli della spesa pubblica: pensioni, sanità e istruzione.

Parallelamente, il sistema produttivo dovrebbe allargare la sua base e incrementare i suoi valori aggiunti unitari. Non sarebbe infatti sufficiente solo alleggerire il peso della spesa pubblica sulla produzione per aumentare l’occupazione: occorre migliorare l’efficienza dei mercati, accrescere la produttività, rendere il mercato del lavoro più flessibile e più equo di quanto non sia oggi. Oggi in Europa il mercato del lavoro è a due velocità: molto flessibile per i giovani che hanno contratti brevi reiterati a lungo e per nulla flessibile per la parte protetta della popolazione, dove i salari riflettono più l’anzianità che la produttività. Tutto il peso della flessibilità grava dunque sulle spalle dei giovani.

Fino ad oggi in Europa nessuno ha saputo offrire agli elettori un nuovo modello di sviluppo e un coerente modello sociale. La conservazione dell’esistente, o meglio delle impossibili promesse di protezione economica e sociale dell’attuale modello europeo, sembra essere la cifra dominante dell’offerta politica. Un’offerta sempre meno credibile e sempre meno capace di indicare agli elettori una via di uscita da una crisi epocale. Chi saprà offrire una credibile alternativa alla contemplazione inerte e inerme o alla rivendicazione ribelle e reazionaria avrà le chiavi della politica del futuro.

In Italia tutto questo si incrocia con la fine del ciclo politico del centrodestra e con il fallimento della rivoluzione liberale berlusconiana e della rivoluzione federalista bossiana. Ma questa è materia per una futura riflessione.