La forza del destino

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La forza del destino

09 Gennaio 2011

Da qualche giorno, l’umore di Corbera non era particolarmente lieto: stava sulle spine in attesa di una notizia riguardante Falconeri. Tuttavia, quella mattina, più che preoccupato era meditativo.

Stava leggendo sul giornale la notizia del suicidio di Tano Guerra.

Il professore lo conosceva come un bottegaio tranquillo, ma irrimediabilmente nevrotico. Più volte lo aveva dovuto separare dalla moglie sul nascere di una lite causata dalla gelosia.

Si erano sposati quando lui di anni ne aveva trentuno e lei sedici. Entrambi erano nel pieno della vita, ma inevitabilmente la loro differenza di età si era fatta sentire: lui era diventato il grassone cinquantenne e sudaticcio che Corbera conosceva, mentre lei era un trentenne di tutto rispetto e ancora capace di far girare la testa ai ragazzini.

“La gelosia è un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre” canta Shakespeare.

Il giornale diceva inoltre che il bottegaio aveva fatto una strage, uccidendo i domestici e la moglie. Il professore era un po’ scosso da quella notizia. Incredibile come un sentimento riesca a far diventare un pacioccone tranquillo in uno squilibrato ed efferato assassino.

                                                                                              ***

Dopo aver sbrigato le solite faccende della giornata, si ritrovò senza nulla da fare. Andò in veranda. Era un sole pallido quello che lottava contro le nuvole autunnali e non riusciva a produrre calore. La luce che veniva filtrata dalle nuvole lattee giungeva al suolo bianca e fredda, insipida come un petto di pollo. Al paesaggio uggioso, si affiancava il carattere delle riflessioni del professore. Sedeva sul dondolo di giunco, con una coperta di lana vergine sulle gambe.

Centellinava uno Zacapa alternandolo a un Romeo y Julietta numero uno. Era lì seduto comodamente, sommerso dal viluppo della coperta, e si lasciava andare al libero corso dei suoi pensieri. Contemplava il paesaggio con quei due piccoli piaceri fra le mani e un’idea nel cervello.

Pensava alla natura e alla sua grandiosità. Ricordava quando era andato lungo il Nilo con un battello: ogni mattina, quando andava sul ponte, il sole disegnava, sorgendo, strane scritture che tacitamente svelavano indicibili segreti.

Per una scommessa, da ragazzo, aveva pattinato lungo la Muraglia cinese. Aveva ammirato i picchi a strapiombo delle gole ammantate di flora selvaggia nella foresta amazzonica e visitato il Gange. Aveva consumato la strada sulla costa dell’isola di Grìmsey e goduto le dolcezze della Provenza. Ma niente gli aveva dato le stesse emozioni della misteriosa Africa. Non aveva accettato che gli venisse somministrato il solito giro per turisti a caccia di emozioni forti: lui aveva contattato due vecchi amici di studi universitari che si trovavano a fare i ricercatori da quelle parti e gli aveva chiesto di fargli passare due mesi indimenticabili. Era stato al cospetto dei potenti di Oriente e aveva ricevuto doni da tutto il mondo.

Quella mattina, fissando la sconfinatezza dal promontorio, pensava alle varie storie che aveva attraversato. Tirò una profonda boccata al sigaro, proiettando in aria anelli circolari di fumo. Essi salivano al cielo come una preghiera.

La notizia che aveva letto sul giornale lo aveva spronato a porsi degli interrogativi: il carattere di una persona può mutare grazie a un solo choc? Chi siamo noi uomini? Cosa è realmente il nostro cervello? Una macchina perfetta o solo un organo che assolve a qualche funzione logica imprigionando con la ragione il nostro lato scuro che cercava di evadere?

Ciascuna di tali domande non aveva risposta, ma in compenso era altrettanto interessante porsi domande sull’omicidio di cui aveva letto quella mattina: la mente umana era la casa dei giochi del professore e sempre lui ne cercava, combinava e ridefiniva le caratteristiche.

Come poteva un uomo tanto pacifico raggiungere simili limiti? Era stato realmente un omicidio di gelosia o c’era altro?

Dopo aver finito il sigaro, si alzò e rientro in casa. Alzò la cornetta e compose il numero diretto del commissario Falconeri.

Quando questi rispose, il professore gli disse:

«Cosa mi puoi dire del suicidio di Tano Guerra?».

«Non molto, che vuoi sapere?».

«Quante sono le vittime?».

«La moglie di Tano, una cameriera, un cameriere e un maggiordomo».

«E disponevano dei mezzi economici per avere a proprio servizio tre domestici?».

«Se la testa non t’accompagna ti rinfresco la memoria: il poveretto vendeva oggetti di Murano. Sai a quanto va quel tipo di vetro oggi in Giappone, in Russia o a Dubai?».

«Chi è stato ucciso per primo?».

«La cameriera. Poi il maggiordomo, la moglie, il cameriere e, ovviamente, Tano».

«Mandami per email il rapporto e le foto».

«Va bene. Ma faccio prima a mandarti un fac».

«Cos’è un fac?».

«Uno di quelli che ti ho mandato ieri, sai, su carta termica».

«Fax».

«Sì, ma in inglese il singolare non vuole la s, perciò fac».

Chiusero la telefonata e Corbera accese lo stereo chiedendosi se lo star sempre con criminali e maniaci omicidi non avesse fatto diventare squilibrato anche Falconeri. Poco dopo arrivò il “fac” e la esaminò subito.

L’ordine dei morti era quello che gli aveva detto il commissario. Ed era proprio questo che non gli quadrava: perché uccidere prima la cameriera e il maggiordomo e solo dopo la moglie seguita dal cameriere. Se voleva la servitù fuori dai piedi mentre compiva l’omicidio, che senso aveva uccidere un cameriere solo a cose fatte per poi uccidersi? Tanto valeva lasciarlo vivere.

Se si trattava di un omicidio a sfondo passionale, che senso avrebbe avuto uccidere i camerieri? Bastava la sola moglie per poi suicidarsi.

Ma perché uccidere una moglie in apparenza tanto devota?

Scese nella tavernetta, che aveva arredato con tinte vivaci e mobili comodi. Vi aveva posizionato un tavolo da biliardo, a cui gli piaceva giocare con i suoi amici nelle serate estive, quando il sottosuolo diveniva un rifugio contro il caldo.

I mattoni rossi intervallati da strisce di cemento erano a vista e ogni tanto si vedevano delle tele che lo stesso Corbera aveva realizzato.

Graziose poltrone di pelle marrone rendevano accogliente quel locale che il professore adoperava come suo studio e atelier.

Accese il caminetto e iniziò a dipingere.

Era un’operazione che lo distendeva e lo aiutava a riflettere. Aveva lo stesso potere di concentrazione del suo Pensatoio.

Un’ipotesi che gli venne in mente era un probabile assassino che, per un qualche interesse, aveva inscenato tutta la tragedia. Ma chi avrebbe avuto un utile dalla morte del poveretto? Non aveva mica una fabbrica o una azienda e, nonostante quello che dicesse il commissario, fare il negoziante di vetro di Murano non rendeva a sufficienza da poter diventare il bersaglio delle mire di chicchessia. O, almeno, non al livello di Tano.

Dopo un’oretta si stancò di dipingere e andò a sedersi sulla poltrona, con gli occhi semichiusi e le mani incrociate sul ventre.

Quel penetrante silenzio lo scuoteva. Spesso si era domandato poteva il silenzio diventare tanto più rumoroso quanto più era intenso. Quel silenzio era inquietante, tagliente: sentiva lo spostarsi dei granellini di polvere sul pavimento e il sibilo sordo della circolazione sanguigna che avvertiva in momenti come quello.

Nel cervello gli rimbombavano le parole “Volevo che tutti, nel silenzio della loro lettura, si girassero terrorizzati a veder che accadesse dietro di loro al minimo rumore”, introduzione di un vecchio libro.

Era quel silenzio che gli faceva sentire il frastuono dei secondi che scorrevano e dei minuti che si trascinavano. Era quello strano silenzio che non gli permetteva di pensare.

Era stato stupido a interrompere la musica per scendere a dipingere: sapeva quanto il silenzio riuscisse talvolta ad atterrirlo, ma lo stesso cedeva alla tentazione. Si alzò, andò al mobiletto dei cd e prese La forza del destino di Giuseppe Verdi.

Era una delle sue opere preferite e la storia era abbastanza originale e consona agli interessi del professore: un omicidio involontario, una fuga e un vendicatore. Se solo non fosse stata avvolta da una fama poco benevola, sarebbe stata l’opera perfetta.

Si mise in ascolto e in pochi istanti si sentirono le tre note di ottone e poi il pezzo più bello: la Sinfonia.

Di delicatezza spaventosa, quei toni correvano per lo spazio giocando a cavallina con gli atomi per poi ricadere nel grandioso e nel drammatico. Tragico e potente. Straordinario quel che si può fare in tre minuti: il suo stato d’animo era cambiato una mezza dozzina di volte seguendo di pari passo la musica nelle sue evoluzioni.

Come mai quell’ordine di vittime? Le foto che aveva davanti a lui dicevano chiaramente che Tano era quello che aveva perso più sangue di tutti: il suo corpo giaceva in una pozza molto più larga di quelle intorno al corpo degli altri.

La cameriera era di fronte a lui per terra e, fra lei e il padrone, c’era il maggiordomo.

Il referto diceva che il maggiordomo aveva il cranio sfondato e che quella era stata la causa della morte, non il colpo di piccolo calibro che si trovava nella schiena.

L’arma del delitto era una piccola pistola col calcio madreperlato. Il professore pensò che era la classica arma che avrebbe avuto una donna.

Il corpo del cameriere era su quello del maggiordomo, ed era morto per uno dei colpi della pistola incriminata.

“Strano” pensò Corbera, che iniziava a vedere una probabile luce alla fine del tunnel.

La donna, infine, era morta per un forte colpo alla testa.

Il professore, si mise a riflettere per qualche attimo mentre le parole del melodramma continuavano indisturbate.

Il professor Corbera non lo sapeva, ma la soluzione che stava cercando era davanti ai suoi occhi. Anzi, davanti alle sue orecchie.

Verdi era proprio un genio. Aveva scritto anni e anni prima che accadesse, la soluzione di un caso che molto probabilmente sarebbe rimasta senza un perché per sempre.

Ecco la fine del primo atto: il marchese scopre la fuga della figlia e di Alvaro, questi viene scoperto con le mani nel sacco e, per farsi catturare inerme, scaglia a terra la propria pistola, che nel cadere, produce uno sparo che ferisce a morte il padre di Leonora. Qualcosa di ovviamente surreale, come quasi sempre nell’opera.

A questo punto sopraggiunge don Carlo, fratello di Leonora e figlio del morente marchese. Tenta di catturarli, ma non vi riesce, dando così l’inizio alla trama ingarbugliata dell’opera: Piave non poteva dare un titolo più appropriato alla sua creazione.

Il professore giunse alla soluzione poco dopo l’inizio del secondo atto.

Il povero Tano stava pulendo la pistola, la cameriera era dinanzi a lui per qualche motivo. Vedendo il padrone maneggiare l’arma, molto probabilmente l’avrà esortato a fare attenzione, ma lui inizia a giocarci per impressionarla. Parte un colpo che uccide la ragazza. Tano getta a terra l’arma, ma parte un colpo che lo colpisce e lo uccide. A questi due spari accorre il maggiordomo, che raccoglie istintivamente l’arma e resta impietrito. Il cameriere, anche lui richiamato dagli spari, arriva di soppiatto alle spalle del collega, che ritiene erroneamente il fautore del duplice omicidio, e per stordirlo lo colpisce alla testa con un oggetto.

Quello cade a terra, il cameriere raccoglie la pistola e, forse accecato dalla furia e dalla paura, gli spara. Appena capito ciò che ha fatto, lascia cadere la pistola, che stranamente non spara.

A questo punto arriva la moglie che, ritenendolo l’assassino, gli spara con la pistola che aveva fatto cadere per terra.

Spaventata dallo sparo, indietreggia e inciampa. Mentre cade, sbatte la testa per terra, e muore. Incredibile, ma verosimile.

Il professore, appena ebbe messo a fuoco la successione dei fatti, telefonò al commissario.

«Falconeri, forse ho trovato la soluzione al caso di Tano».

«Veramente? E com’è andata la faccenda?».

«Ti manderò un “fac” a riguardo» celiò Corbera. Ma il suo tono, immediatamente, si fece serissimo: «Senti, ma è confermato?».

Dall’altro lato Falconeri tacque, producendo un silenzio di quelli terribili che Corbera odiava.

«A quanto pare sì. Sarà ufficializzato fra qualche giorno e poi partirò».

«E dove ti hanno destinato?».

«È quasi certo che sarà la Puglia».

«E quindi non ci si vedrà più».

«Non essere catastrofico. Sicuramente ci vedremo. È solo che non lavoreremo insieme».

«E ti sembra poco?».

No, non gli sembrava poco, ma non voleva far sentire a Corbera la commozione nella sua voce.

Si salutarono e si ripromisero di vedersi quella sera, per parlare meglio del caso di Tano Guerra e forse per un amarcord di qualche vecchia, indimenticabile, avventura.

                                                                                        FINE