La giovane destra italiana per vincere deve guardare al conservatorismo “fusionista” americano
09 Febbraio 2020
La conferenza internazionale sul “nazional-conservatorismo” God, honor, country tenuta nei giorni scorsi a Roma, e il successivo viaggio della leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni negli Stati Uniti, rappresentano un’occasione per ragionare sul futuro del centrodestra italiano, sulle sue prospettive e sui suoi attuali problemi.
La convention del 3 e 4 febbraio – organizzata da una rete di associazioni politico-culturali tra cui spiccano la Edmund Burke Foundation e la Fondazione Herzl, e per l’Italia da Nazione Futura di Francesco Giubilei – ha offerto, attraverso una partecipazione di altissima qualità, un modello molto significativo alla destra italiana, oggi divisa tra l’arrembante “securitarismo” salviniano e meloniano e l’incerta eredità liberale di Forza Italia. Un modello già evidente nelle figure a cui la conferenza è stata dedicata – quelle di Ronald Reagan e di papa Karol Woityla – e che vede nell’asse tra conservatorismo anglosassone e sovranismo centroeuropeo la sua struttura portante: imperniata sulla difesa intransigente e “muscolare” della civiltà occidentale in un mondo globalizzato instabile, pluricentrico ed altamente conflittuale.
Una struttura ben sintetizzata a Roma dagli interventi ispirati di pensatori come Yoram Hazony, autore di Le virtù del nazionalismo, e Rod Dreher, autore di L’opzione Benedetto, nonché di leader conservatori come Viktor Orbàn e Marion Maréchal, oltre alla stessa Meloni.
Molti sono gli utili insegnamenti che la destra italiana può trarre da quel dibattito. Possiamo riassumerli sommariamente come segue.
La prima, fondamentale lezione sta nella consapevolezza che per vincere e governare efficacemente il sovranismo sviluppatosi negli anni Dieci in Europa deve ispirarsi all’unico conservatorismo in grado di rivitalizzare e consolidare le società occidentali: quello di matrice anglosassone, nell’evoluzione che da Reagan e Thatcher conduce a Trump e Boris Johnson. La destra britannica-nordamericana è infatti la sola che in Occidente ha opposto costantemente una efficace resistenza alle ideologie di sinistra, riuscendo a configurarsi come una cultura politica non puramente difensiva, ma propositiva, perché promuove società in cui le libertà individuali e l’appartenenza comunitaria vanno di pari passo. Ciò grazie al fatto che dagli anni Settanta ad oggi in quella famiglia politica si è affermata una linea “fusionista”, cioè una alleanza organica tra liberali/libertarians da un lato, tradizionalisti identitari, prevalentemente di ispirazione etico-religiosa, dall’altro. Alleanza talvolta incrinata, ma sempre rigenerata, della quale appunto Reagan è stato la sintesi più armonica, e che oggi rivive in Trump e in Johnson (in cui convivono l’eredità di Hayek e Friedman e quella di Roger Scruton).
Da questo primo punto deriva una serie di conseguenze logiche, che dovrebbero essere bene comprese ed assimilate dalle forze di centrodestra nostrane, pena gravi equivoci e possibili delusioni.
1. Nessuna destra di governo vincente in Occidente può essere anti-mercatista e statalista. Il sovranismo non si può fondare sull’assistenzialismo statale né sull’isolazionismo autarchico. Eventuali misure protezionistiche (come i dazi promossi da Trump) servono non ad uccidere il mercato globale, ma a riequilibrarlo contro le distorsioni operate da modelli di capitalismo illiberale come quello cinese. Tratto comune alle destre conservatrici di governo in economia è, infatti, la liberazione delle energie della società attraverso una politica favorevole alle imprese, all’iniziativa, alla concorrenza, fondata su abbattimento sistematico della pressione fiscale, riduzione della spesa pubblica improduttiva, costi standard nei servizi pubblici: linea condivisa da Jair Bolsonaro come dai sovranisti centro- ed est-europei. Inutile dire, poi, che nel conservatorismo contemporaneo non ci può quindi essere alcuno spazio per concezioni “decrescitiste”, “economie circolari”, versioni anti-capitaliste e anti-umaniste dell’ambientalismo.
2. Simmetricamente, nessuna destra occidentale di governo può sposare una idea radicale, relativistica, puramente individualistica dei diritti civili. Una società che promuove la libertà di scelta e la libera iniziativa degli individui non produce prosperità e crescita senza la stabilità sociale data dalla coesione familiare, dalla lotta alla descrescita demografica e dalla continuità etico-culturale tra le generazioni. Il nazional-conservatorismo non può quindi essere efficace se non adotta un’impostazione identitaria e social conservative, di intransigente difesa della vita e della famiglia: sia attraverso un welfare che incoraggi matrimonio e fertilità, sia opponendosi alle derive biopolitiche relativistiche, come aborto, eutanasia, agenda LGBT di disarticolazione della paternità e maternità, e simili. Le necessarie barriere contro l’immigrazione indiscriminata ed illegale – sostenute da tutte le destre nazional-conservatrici – si inseriscono in questa comune, basilare aspirazione alla conservazione della stabilità culturale e sociale come presupposto per l’effettiva vigenza delle libertà individuali, minacciate dall’astratta ideologia multiculturalista.
3. In politica estera le destre nazional-conservatrici devono necessariamente essere filo-americane: non possono puntare né su un nazionalismo isolazionista né su alleanze imperniate su potenze eterogenee o estranee alla tradizione occidentale, come Russia, Cina o paesi islamici. L’ancoraggio all’alleanza transatlantica è una condizione indispensabile per la difesa della civiltà occidentale, dei suoi princìpi, delle sue possibilità di sopravvivenza e crescita, senza la quale il conservatorismo è privo di senso. Corrispondentemente, la destra sovranista non può che essere schierata a difesa di Israele, avamposto dell’Occidente nel Medio Oriente, della sua sopravvivenza e libertà, della sua possibilità di diventare un modello anche per gli Stati di quell’area.
Questo punto – ancora solidamente conservato nell’entourage berlusconiano – sembra essere stato assimilato in maniera soddisfacente dalla Lega di Salvini, e il soggiorno statunitense della Meloni fa ben sperare anche per la sua formazione politica. Si auspica, in questo senso, che la leader di Fdi superi le resistenze che esistono ancora nella sua base e classe dirigente.
4. Infine, una destra nazional-conservatrice di governo non può affidarsi al leaderismo solitario, né alla sola strategia di comunicazione digitale, pur necessaria e inevitabile nella dialettica democratica contemporanea. Essa deve necessariamente puntare innanzitutto sulla formazione culturale capillare, a partire dal basso e dalla dimensione locale, della propria classe dirigente, istradandola verso le matrici solide del conservatorismo “fusionista”. Infatti la pura tecnica politica non è sufficiente oggi, perché in tutto l’Occidente è in corso un grande scontro innanzitutto ideologico e culturale, una “guerra di religione” in cui il nuovo conservatorismo si deve misurare con un avversario – la sinistra liberal – che detiene gran parte delle fonti più influenti della cultura di massa e impone la propria egemonia ad un livello persino psicologico.
Da questo punto di vista la destra – anche in Italia – parte da una situazione incoraggiante: la grande ricchezza di associazioni, think tank, circoli culturali, case editrici, siti e pagine social di varia area conservatrice che oggi esiste, produce idee, promuove ricerche e dossier, in molti casi si impone nel dibattito politico, ed è formata in gran parte di giovani, spesso giovanissimi, appassionati ma anche informati e colti.
I vertici dei partiti di centrodestra hanno oggi il compito vitale, e la grande responsabilità, di favorire un organico collegamento in rete tra questi soggetti, di stabilire una salda connessione con loro, di ascoltarli e insieme formarli: in modo da dotare finalmente la destra italiana – che su questo punto dal primo berlusconismo in poi ha sempre avuto molte difficoltà – di un nucleo attivo consapevole, non improvvisato, in grado di sostenere le durissime sfide politiche che la attendono senza farsi risucchiare o emarginare dalla cultura imperante del progressismo relativista.