La globalizzazione e lo starnuto cinese
21 Marzo 2007
Si dice che abbia inciso la paura di un’imminente recessione. Che abbia pesato lo spettro della bolla immobiliare, sempre pronta a scoppiare. Che a Pechino fossero troppo insistenti le voci di una stretta alla liquidità, poi effettivamente avvenuta intorno alla metà di marzo. Che addirittura l’indice vada puntato contro il gran maestro Alan Greenspan, un ex più presente che mai sulla scena finanziaria, e contro le sue fosche previsioni. Tutto vero. O tutto falso. Importa stabilirlo? Certo, ma il dato nuovo emerso in questi giorni di sbalzi sui mercati borsistici mondiali è un altro, e riguarda il concreto dispiegarsi del processo di globalizzazione. Sì, perché il via allo shakeraggio azionario di fine febbraio, e di cui ancora si avvertono le scosse (le Borse mondiali ed europee continuano a salire e scendere senza soluzione di continuità, e dopo il brusco tonfo all’inizio della scorsa settimana con cali costanti di oltre due punti percentuali, si sono riprese – a Milano ancora nel corso di lunedì 19 marzo il Mibtel e l’S&P/Mib viaggiavano entrambi verso il +1%, Londra e Parigi sopra lo 0,50%, Francoforte intorno a +0,90%, Shanghai e Shenzhen rispettivamente a +2,80% e +1,20% – grazie al timido rialzo Usa), è partito dalla piazza di Shanghai, che in un giorno solo è crollata del 9% dopo anni di crescite stratosferiche ininterrotte. E perché con uno straordinario effetto domino la locomotiva cinese si è tirata dietro il carrozzone di tutti i listini mondiali. Giù l’Europa, Milano, Francoforte, Parigi, Londra. Giù, soprattutto, Wall Street. E allora? Allora, siamo all’ennesima prova di come l’economia stia sempre un passo avanti alla politica, di come la globalizzazione rappresenti un “percorso” – accidentato in alcuni casi – inevitabile, comunque slegato dalla volontà degli uomini (le famose conseguenze inintenzionali di azioni umane intenzionali), di come su questo percorso le caselle più importanti – dopo i fasti della new economy stile anni 90 – siano oggi occupate dalla Cina. Uno Stato che non è solo uno stato, un mercato che non è solo un mercato. E’ l’Impero di mezzo, anzi l’Impero “in” mezzo, il vero fulcro dell’economia mondiale, e non solo perché in Cina si producono beni a bassissimo costo poi riesportati su tutti i mercati, ma anche perché la Cina sta oggigiorno assurgendo a grande contraltare finanziario di New York: è grazie alla svalutazione dello yuan che i consumatori americani possono dilapidare i loro risparmi acquistando “made in China”, e sono ancora le autorità cinesi che grazie al riacquisto di obbligazioni Usa finanziano il debito statunitense. E’ un “capitalismo Potemkin”, in cui il governo controlla gli operatori di Borsa, non esistono regole di corporate governance né controlli sulla qualità dei bilanci. Ma tant’è.
E se il manierismo no-global ha dovuto fare finalmente i conti con il suo spettro, è altrettanto vero che quanto è successo il 27 febbraio scorso, il martedì nero, non è certo derubricabile alla categoria della normale amministrazione. Molti operatori finanziari hanno parlato di un fisiologico aggiustamento dei titoli, dopo mesi di impennate a dir poco esagerate perché troppo superiori ai valori dell’economia reale e delle società quotate (si pensi che nel solo 2006 il listino di Shanghai è cresciuto del 130%); altri hanno intravisto in questo scossone lo sgonfiarsi della bolla speculativa, alimentata negli ultimi anni dalle politiche del denaro facile e da investimenti spericolati garantiti da una eccessiva liquidità: in altre parole l’avanzarsi del rischio recessione.
Avevano ragione i profeti di sventura, quindi, quelli che “io l’avevo detto che non c’era da fidarsi”? La fretta, si sa, è cattiva consigliera. E conclusioni definitive al momento non possono essere tratte. Un dato inoppugnabile però c’è. Se la Cina è l’elefante dell’economia internazionale, è evidente che non si potrà più ragionare senza tenere in considerazione il gigante asiatico, perché il gigante tiene molto in considerazione ciò che avviene in Occidente, a cominciare dagli sviluppi del mercato immobiliare. Che in questi anni è stato sostenuto proprio dai prestiti dei paesi emergenti, Cina in primis. Nel 1998 la crisi delle Tigri asiatiche non ebbe praticamente ripercussioni in Europa e Usa, oggi la situazione è ben differente e l’economia globale più integrata. Insomma, se un tempo si diceva che “un raffreddore a New York causa una polmonite in Europa”, stavolta bisognerà proteggersi dagli starnuti a Shanghai o Shenzhen. E’ la globalizzazione, bellezza.