La Gran Bretagna va a fondo?
21 Aprile 2009
A Londra, e – quel che più conta – a Washington , corre insistentemente voce che la Gran Bretagna abbia già iniziato discussioni preliminari con il Fondo monetario internazionale per un prestito a breve termine diretto a sostenere la sterlina (ossia ad evitare un tracollo analogo a quello del settembre 1992) e permettere un “riaggiustamento” graduale della bilancia dei pagamenti (il disavanzo dei cui conti con l’estero si sta dilatando rapidamente) e, in parallelo, un riassetto dei conti interni.
Alcune elaborazioni del Tesoro britannico, per il momento ufficiose (ma non riservate più di tanto poiché apparse in alcuni servizi finanziari telematici ad abbonamento) evidenziano che nel 2009 l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni raggiungerebbe l’11% del pil; inoltre lo stock di debito in proporzione al pil (oggi al 40%) arriverebbe, senza correzioni di rotta, all’80% entro il 2012. Londra – ricordiamolo – non fa parte del club dell’euro; quindi, ai suoi conti pubblici e con l’estero non si applicano né la vigilanza né gli strumenti creditizi disponibili per coloro che appartengono all’unione monetaria.
La possibile, e, secondo fonti interne al Fmi, probabile, richiesta britannica suscita due generi di considerazioni per chi ha lavorato per circa 20 anni per le istituzioni finanziarie internazionali con sede nella capitale Usa. Andiamo brevemente al passato. Negli Anni ’60 la Gran Bretagna è stata uno degli ammalati più visitati dal Fondo e dalle sue missioni: lavorare al “desk” Gran Bretagna del Fmi era tra gli incarichi di maggior prestigio all’interno dell’organizzazione. Al Fondo era maturata la convinzione che Londra avrebbe dovuto svalutare (si era nel regime detto “di Bretton Woods”, di cambi gestiti collegialmente) ma di concordare i vari passaggi con il resto dell’area della sterlina. “Eventually, they did it” – commentò uno dei maggiori specialisti d’economia internazionale dell’epoca, Isaiah Frank, quando nel novembre 1967 decisero di farlo. Ma all’improvviso. E sancendo così la fine dell’area della sterlina, a ragione delle forti perdite valutarie subite dai Paesi del Commenwealt che depositavano da anni i loro saldi presso la “Old Lady”, la Bank of England.
Guardiamo prima al presente e poi al futuro. La decisione di Londra di non aderire all’euro e di tenersi le mani libere ha una sua coerenza per un Paese che ha attuato, dall’inizio degli Anni 80, una strategia di de-industrializzazione e di finanziarizzazione. Per oltre un quarto di secolo ne ha colto i benefici: lo Stock Exchange è la sola piazza che può trattare alla pari con Wall Street, la crescita reale è stata sostenuta, l’occupazione in aumento. Ora, però, ne paga il costo: un’economia priva di una base industriale è più esposta di altre allo tsumani finanziario. Da “senza briglie” (quelle imposte dalla moneta unica) è diventata “senza paracadute”. Mentre cinque anni fa aveva non solo parametri del “patto di stabilità” ma anche i “fondamentali” in ordine.
Ove oggi il Governo di Sua Maestà chiedesse di entrare nell’unione monetaria, gli verrebbe detto che fanno difetto i requisiti di base. Quindi – si dice al servizio studi della Banca Centrale Europea (Bce) – è meglio che non bussi neanche alla porta.
Ci sono, però, pure conseguenze importanti sul piano interno. L’ipotesi è vista a Downing Street come l’Ombra di Banco. L’ultima volta che la Gran Bretagna si è rivolta, cappello in mano, è stato nel lontano 1976 con un Governo laburista ed un Regno Unito travagliato da malessere sociale e scioperi. Ottenne le agevolazioni creditizie. Il Governo restò in carica. Per poco più di 18 mesi prima di lasciare le redini ai Tory per oltre tre lustri. Per Gordon Brown gli scandali e scandaletti di queste settimane sono punzecchiature di spillo a fronte di una richiesta al Fondo analoghe a quelle fatte negli ultimi mesi da Ungheria e Polonia.
La Vecchia Europa continentale dell’euro, però, farebbe meglio a non sorridere. Con un Regno Unito debole ed umiliato, l’Ue avrebbe meno voce in capitolo nei vari “G”. E si andrebbe verso il “G2” (Usa-Cina), rendendo l’Ue una specie di Consiglio Superiore dei Beni Culturali con aspirazioni maggioritarie (nell’economia internazionale).