
La grande guerra della cultura, ieri come oggi

23 Febbraio 2025
C’è una particolare simmetria fra i temi emersi durante il convegno La Grande Guerra della Cultura, organizzato sabato dalla Fondazione Magna Carta alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea nell’ambito della mostra Il tempo del Futurismo, e il dibattito politico odierno. Crisi del liberalismo, dazi, nuove destre, pulsioni nazionaliste, esaltazione della tecnologia, disorientamento delle famiglie politiche tradizionali: tutto torna, come se il secolo breve fosse meno breve del previsto e le sue contraddizioni si riproponessero con ostinata attualità. Gli storici intervenuti hanno parlato del passato, certo. Ma il pensiero corre inevitabilmente all’oggi, alle convulsioni geopolitiche che attraversano il mondo e ai fragili equilibri su cui si regge l’ordine liberale.
Maurizio Caprara e Francesco Giorgino hanno coordinato efficacemente il convegno. A dare l’avvio ai lavori è Giovanni Orsina (LUISS), che individua nella “rottura interventista” uno snodo cruciale nella crisi del liberalismo politico del primo Novecento. Il liberalismo, sostiene Orsina citando Liberalism Divided di Michael Freeden, può prosperare solo in un clima di fiducia nel progresso. Ma la Prima Guerra Mondiale ha fatto a pezzi questa certezza, lasciando dietro di sé un sistema fragile, vulnerabile, incapace di contenere il ritorno della politica, intesa non tanto come ordinata amministrazione della società ma come scontro tra visioni collettive radicali.
Nazionalismo, populismo, guerra… concetti che suonano familiari? “Le somiglianze” con quanto sta avvenendo oggi, dice Orsina, “sono molte, preoccupanti, e speriamo che la memoria possa aiutarci”. Il liberalismo dell’epoca, per quanto diviso, era tutto fuorché passivo. Gaetano Quagliariello (LUISS), con precisione chirurgica, seziona le fratture interne alla cultura liberale del tempo, mettendo in luce due generazioni di intellettuali antigiolittiani. Da un lato, la prima generazione, con figure come Luigi Albertini e Luigi Einaudi, che pur divergendo su punti chiave come i dazi, la guerra di Libia e il Biennio Rosso, erano uniti da un’avversione al pragmatismo giolittiano. I “due Luigi” sembrano uniti da “un fondo di ‘moralismo’ che portava a individuare le pratiche giolittiane per raggiungere il progresso come fondamentalmente immorali”. Giolitti, con i suoi compromessi e la gestione flessibile del potere, veniva considerato come un uomo senza ideali, troppo politico per i liberali e troppo poco rivoluzionario per i socialisti.
Quella che emerge, sottolinea Quagliariello, è una sorta di “deriva moralistica” nel giudizio su Giolitti, simile a quella che attraversa il riformismo democratico e il meridionalismo di Gaetano Salvemini. La seconda generazione di antigiolittiani, quella degli interventisti democratici, radicalizza ulteriormente questa impostazione. La guerra diventa una sorta di strumento di rinnovamento politico. L’interventismo si tinge di idealismo pedagogico, come in Giuseppe Lombardo Radice, o nel combattentismo sardo di Bellieni che traduce questa visione sul piano militante. Ma l’idealismo rischia di essere terreno fertile per altre forme di radicalismo. La traiettoria degli interventisti democratici li porta sempre più vicini al rifiuto della democrazia parlamentare e verso una progressiva critica del salveminismo. Quagliariello chiude il suo intervento evocando le figure di Gobetti e Gramsci, due voci che, partendo da posizioni diverse, finiranno entrambe per individuare nella crisi del liberalismo il terreno su cui si sarebbe giocato il futuro dell’Italia.
Lorenzo Benadusi (Università Roma III) mostra invece l’impatto della Prima Guerra Mondiale sulla cultura del Novecento, con immagini e opere d’arte tragiche come quelle che arrivano dai fronti dei conflitti contemporanei. La Danza Macabra Europea di Alberto Martini, con le sue visioni spettrali della guerra, svela la fascinazione estetica primo-novecentesca per la violenza e la modernità. La guerra diventa, per alcuni, strumento di rigenerazione: una forza che pretende di ordinare il caos del mondo. La si esalta come forza purificatrice, la si sostiene con empito democratico nella campagna di Libia, la si combatte rievocando “le patriottiche pagine deamicisiane”, sottolinea Benadusi parlando della borghesia dell’epoca. Eppure, in tutti i casi il risultato finale è una “brutalizzazione” della cultura politica. Domenico Bruni (Università di Siena) aggiunge un altro tassello al quadro: trasformismo e debolezza delle élite borghesi impediscono di reagire efficacemente alla crisi. L’inerzia delle classi dirigenti liberali lascia spazio a nuovi soggetti politici, pronti a colmare il vuoto con soluzioni radicali.
La seconda parte del convegno si concentra sugli effetti della guerra sulle famiglie politiche novecentesche. Il conflitto è uno spartiacque per il mondo cattolico, osserva Eugenio Capozzi (Suor Orsola Benincasa): nel pieno della tempesta bellica, una parte del cattolicesimo entra nel campo d’azione del liberalismo, gettando le basi per la futura nascita di un partito autonomo. Il socialismo, invece, si converte al massimalismo, abbandonando le posizioni riformiste, mentre chi non aderisce alla svolta rivoluzionaria diventa un dissidente. Simona Colarizi (La Sapienza) racconta questo passaggio storico in un’Italia alle prese con ritardi strutturali, tra arretratezza industriale, povertà diffusa e analfabetismo. La sinistra si spacca, il riformismo viene travolto, mentre la politica si polarizza sempre più, aprendo le porte agli estremismi.
Nel frattempo, le nuove destre scalzano le vecchie, e gli intellettuali vivono un rapporto tormentato, quasi edipico, con l’idea di Nazione. Marco Gervasoni (Università del Molise) ne ripercorre i tratti con una chiave psicoanalitica ed esplicitamente ironica, facendo emergere come la crisi del liberalismo abbia prodotto una generazione di pensatori inquieti, divisi tra nostalgie e ambizioni rivoluzionarie. Mentre la politica si ristruttura, la società cambia radicalmente, plasmata dalla tecnica, dal design e dall’industrialismo, che modificano il modo di vivere e di lavorare delle persone. Monica Cioli (Scuola Normale Superiore di Pisa) traccia un affascinante percorso tra le avanguardie artistiche, il futurismo, l’arte rivoluzionaria russa e il Bauhaus, mostrando come la modernità abbia trovato espressioni estetiche potenti, spesso intrecciate alle ideologie del tempo.
A chiudere il convegno è Alessandra Tarquini (La Sapienza), con una rilettura incisiva dello scontro tra Benedetto Croce e Giovanni Gentile, cristallizzatosi nei due celebri manifesti del 1925. Due visioni inconciliabili della storia italiana, a cominciare dalla lettura del Risorgimento. Alla fine, fu Gentile a prevalere numericamente, raccogliendo più firme. Ma quella vittoria fu effimera: il liberalismo crociano avrebbe avuto la sua rivincita. Non tutti scelsero da che parte stare. Piero Gobetti e Antonio Gramsci, ad esempio, segnarono una distanza intellettuale e politica da entrambi i manifesti, Per Tarquini, *non c’è stata alcuna ricomposizione tra i due manifesti del 1925″. La frattura tra Croce e Gentile resta una delle cesure più profonde della cultura italiana del Novecento.