La grande rimozione (di G. Quagliariello)

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La grande rimozione (di G. Quagliariello)

12 Settembre 2021

Mi fa piacere che il nostro piccolo appuntamento domenicale cada all’indomani del ventesimo anniversario dell’11 settembre. Non il giorno stesso, non il giorno prima. Viene così più facile constatare quanto cronica sia la malattia della rimozione che affligge il dibattito pubblico occidentale, a cominciare dal nostro Paese.

Ieri c’è stato il gran tripudio della memoria. Foto ovunque delle torri gemelle in fiamme, omaggi istituzionali, commosse rievocazioni di quel giorno terribile che a detta di tutti avrebbe “segnato la storia”. Eppure, se indubbiamente la storia l’ha segnata, l’11 settembre ha segnato così poco la consapevolezza del nostro angolo di mondo da non aver trovato alcuno spazio, se non del tutto accidentale e residuale, nelle analisi che in queste settimane hanno accompagnato l’ignominiosa e precipitosa ritirata dall’Afghanistan.

Parlare delle vicende afghane senza partire dall’attacco terroristico di vent’anni fa – anzi, più precisamente, dall’uccisione di Ahmad Shah Massoud perpetrata due giorni prima del dirottamento omicida degli aerei sui cieli d’Oltreoceano – è come ricostruire il percorso di vita di una persona dimenticando le sue origini. E’ come osservare una città in macerie senza pensare al terremoto che l’ha colpita. Significa, insomma, pensare di poter tracciare un bilancio sulla presenza occidentale in quella terra obliterando le ragioni per le quali ci trovavamo lì. Come se fossimo in gita scolastica e non a combattere il terrorismo islamico.

L’epilogo oscuro della campagna d’Afghanistan imporrà una gestione attenta del prossimo futuro, per evitare che i danni già consistenti si moltiplichino: per la popolazione locale, per gli equilibri asiatici, per le sorti di quel che resta dell’Occidente, per le dinamiche mondiali della politica di potenza che vedono aggirarsi come avvoltoi colossi arrembanti che nel nuovo governo talebano rischiano di trovare un alleato formidabile per estendere la propria egemonia su parti consistenti del pianeta. Ma impone anche di fare i conti con il recente passato.

Non si tratta di aderire a un facile revisionismo o di esercitarsi in abiure. Si tratta di misurare teorie, visioni e propensioni – anche le proprie – alla luce degli epiloghi storici. Una realpolitik che non può tuttavia diventare banale “senno del poi” cancellando una parte di ciò che è stato.

Interroghiamoci dunque, senza farci sconti. Ma, passata la parentesi retorica dell’anniversario, cerchiamo di non dimenticare davvero. Di non dimenticare perché eravamo lì. E di non dimenticare che la minaccia da combattere esiste ancora, purtroppo più forte di prima.