La guerra di Calderón ai cartelli della droga

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La guerra di Calderón ai cartelli della droga

15 Gennaio 2011

Il 12 gennaio il Presidente Felipe Calderón si è recato a Città del Messico nel quadro del cosiddetto “Dialogo per la sicurezza”, tavole rotonde di confronto e riflessione tra i vertici dello stato e le autorità cittadine per la costruzione di una comune “tabella di marcia politica” per ristabilire la sicurezza in Messico. Il “Dialogo per la Sicurezza” è uno dei programmi della più ampia strategia di guerra al narcotraffico inaugurata dalla presidenza Calderón a partire dal 2006. Oggi, a quattro anni di distanza, è opportuna una riflessione politica sullo stato dell’arte di tale guerra, sui traguardi ottenuti e gli obiettivi ancora da raggiungere.

La politica di Calderón mira a decapitare le cupole criminali, privandole delle loro fonti di ingressi economici principali (droga e armi), ma anche a interrompere le pipelines della droga che dal Messico si dipanano per tutto il continente americano e oltre. Un programma impegnativo, sia in termini di risorse economiche che di uomini, e quindi bisognoso di una cooperazione regionale per trovare piena attuazione. I cartelli della droga messicani, infatti, costituiscono un serio problema alla sicurezza, non solo quella interna messicana, ma per tutti i paesi della regione. Se da un canto il Presidente Calderón mira a rendere quanto più accessibili i dati, e quindi si fa promotore di una politica della trasparenza, dall’altro l’impiego dell’esercito per l’indebolimento dei cartelli della droga lascia dietro di se molte zone d’ombra. Così come un latente disinteresse dell’attuale amministrazione Obama mette a rischio la Mérida Initiative, ovvero il programma di cooperazione per la sicurezza promosso durante la presidenza di George W. Bush e che vede coinvolti Stati Uniti, Messico e paesi dell’America Centrale.

Il 2010 messicano potrebbe essere definito the bloody year per il paese centramericano. Secondo i dati ufficiali, la guerra contro il crimine organizzato ha provocato la morte di più di 15mila persone in tutto il paese, soprattutto nelle zone di confine con gli Stati Uniti. Questo il bilancio della guerra contro i narcos e i cartelli della droga, che nel 2010 hanno falciato più del doppio delle vite rispetto al 2009, il triplo se confrontiamo i dati con quelli del 2008. Questo il primo bilancio compiuto durante la conferenza stampa del 12 gennaio dal Presidente Calderón, promotore e fautore della più imponente guerra ai narcos che il Messico abbia mai conosciuto. I dati forniti in conferenza stampa, come specificato da Alejandro Poiré, portavoce del Governo del Messico per la Sicurezza Pubblica, sono il frutto di un lavoro di equipe tra la Presidenza del paese e un gruppo di esperti, che hanno dato via a una pagina web dedicata alla diffusione dei dati sulla lotta al narcotraffico: base de datos de homicidios presuntamente relacionados con la delincuencia organizada, questo il nome ufficiale.

Un impegno politico che si esplica anche nelle retate per la confisca di lotti di droga e armi, il cui destino era quello di essere messi sul mercato messicano o internazionale. Secondo i dati forniti dalla Brookings Institution, autorevole think tank americano, i quantitativi di cocaina sequestrati dal 2006 ad oggi, ovvero da quando Calderón vinse le elezioni, sono andati aumentando vertiginosamente, attestandosi agli stessi livelli di quelli del Costa Rica. Più di 84mila armi sono state sequestrate negli ultimi quattro anni ai cartelli messicani: apparentemente un ottimo risultato, se non fosse che oggi si stima a più di 10 milioni il quantitativo di armi da fuoco vendute illegalmente nel paese, secondo quanto dichiarato dal Ginevra Small Arms Survey.

Una guerra che ha portato all’arresto o morte di 19 dei 37 principali leaders delle narco-gangs, determinando di fatto una vacatio gerarchica per molte famiglie della droga, ma che allo stesso tempo ha portato a una loro frammentazione e il risorgere di faide tra queste per la conquista del controllo di nuove rotte per attività criminali. L’Istituto Stratfor, centro internazionale di studi strategici, ha rilevato come l’esplodere della violenza registrata nel 2010, giunta a livelli mai stimati prima, non sia più circoscrivibile alle sole zone del Nord del paese, le rinomate Chihuahua, Sinaloa e Bassa California, dove nel 2008 si sono registrate il 58% degli omicidi. Nel 2010 la faida per il controllo del corridoio di contrabbando che passa per Juarez tra il Cartel de Sinaloa di Joaquín Guzmán Loera, detto El Chapo, e l’organizzazione che fa capo a Vicente Carrillo Fuentes, meglio noto come il Cartel de Juarez, è stato accompagnato dall’insorgere di nuovi conflitti con diversi attori del panorama dei cartelli. Tra questi, in special modo, il gruppo dei Los Zetas che hanno scatenato un sanguinosissimo conflitto lungo tutta la zona di confine tra lo stato di Tamaulipas e gli USA. Diffusosi negli stati di Nuevo Leon, Hidalgo e Tabasco, gli scontri hanno dato vita a un’alleanza tra il Cartel de Sinaloa, il cartello del Golfo e La Familia Michoacana (LFM): li chiamano la Nueva Federación.

Uno scenario noto, o almeno al quale ci si sta abituando negli anni, se non fosse che oggi, questi stessi gruppi vogliono sostituirsi in pieno allo Stato: vogliono essere anti-Stato. Dopo il brutale assassinio di Marisela Escobedo, la madre di una adolescente assassinata a Ciudad Juarez per mano di Sergio Bocanegra, un criminale affiliato ai Los Zetas, avvenuto il 16 dicembre nello stato di Chihuahua, il Cartel de Sinaloa ha dichiarato: “siamo solidali con la famiglia di Marisela Escobedo, mamma di Rubí, con il popolo di Chihuahua e tutta la popolazione e di mettere a disposizione la pagina Quita Puercos [ in Youtube] per qualunque informazione che possa aiutare a colpire i responsabili di questa barbaria, che si chiamino Los Zetas o gente de La Línea, e mettere la parola fine con queste bestie, che il Governo ha protetto e continua a proteggere”. Una vera e propria dichiarazione di sostituzione alla giustizia – nonché di guerra alle altre gangs –, alla quale non si è fatta attendere la risposta de La Línea, il braccio armato del Cartel di Juarez.

Se in Colombia il problema principale era il declino sostanziale del controllo del territorio, dove lo Stato era sostituito in toto dalle FARC, in Messico sarebbe più corretto parlare di perdita di penetrazione delle istituzioni pubbliche, ed in particolare degli organi preposti all’applicazione della legge: la giustizia. Questa è la sfida del 2011 per Calderón e il suo governo: l’applicazione della legge, forse anche attraverso una ponderata e quanto più condivisa  riforma della giustizia a livello parlamentare. Bisogna considerare che in alcuni stati del Messico, il sistema penale si regge ancora sul procedimento giudiziario per via orale: è la testimonianza, la prova orale, l’elemento centrale del processo e del procedimento, con i dovuti limiti che questo porta con sé, come dimostrato emblematicamente dal caso di Marisela Escobedo e del processo per l’assassinio di sua figlia Ruby. Ed è qui che il braccio armato dell’esercito deve necessariamente cedere il passo alla politica. Questo processo, però, non può essere condotto senza una seria e costante collaborazione dei vicini regionali, primi tra tutti gli Stati Uniti che – che piaccia o meno ad Obama – dovranno inserire nell’agenda di quest’anno l’affaire Mexico.