La guerra non è cambiata anche se è diventata “ibrida” e asimmetrica

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La guerra non è cambiata anche se è diventata “ibrida” e asimmetrica

17 Febbraio 2009

Le guerre irregolari, asimmetriche, le “small wars”, le guerre che non sono guerre, sono la minaccia del nuovo secolo. Tutto quel celebre “arco di instabilità” che corre dai Balcani e arriva all’Estremo Oriente è davanti a noi con sfide infinite che mettono a dura prova le capacità di combattimento, la strategia e i mezzi dei paesi occidentali, in primo luogo ovviamente di Stati Uniti e Israele.

Il successo di Petraeus in Iraq, pur con tutte le incertezza del futuro – Maliki si trasformerà in un dittatore asiatico? I militari,  nella migliore tradizione araba, tenteranno qualche colpo di stato? L’Iran non soffierà ancora sul fuoco? –, non ci deve far dimenticare il prezzo pesante pagato per questa precaria pacificazione, dai milioni di profughi ai quasi centomila civili uccisi, né la situazione difficile dell’Afghanistan che ora lo stesso Petraeus si trova a sbrogliare.

Proprio due giorni fa, il generale dei Marines Janes Mattis, ufficiale con 35 anni di esperienza che ha combattuto in Afghanistan, in Iraq (nella Prima e nella Seconda guerra) e che attualmente si trova presso il Comando Supremo dell’Alleanza Atlantica a Norfolk in Virginia, ha sostenuto in una dichiarazione riportata dall’American Press Service il 13 febbraio scorso, che gli Stati Uniti, nonostante la loro superiorità nucleare e convenzionale, ancora non hanno niente da insegnare nelle guerre irregolari.

Considerazione dolorosa che ha aperto una riflessione dura fra i tradizionalisti e gli innovatori all’interno delle forze armate americane e occidentali. La questione che divide è una sola: come devono rispondere gli eserciti a questa sfida? Riducendo le forze tradizionali e aumentando quelle per affrontare le guerre irregolari oppure la sfida attuale è solo temporanea e il pericolo maggiore è sempre costituito dalle potenze che possono mettere in discussione l’esistenza del paese? O cercando una nuova strada?

E’ da mesi che negli Stati Uniti si discute di questo problema, da quando il dibattito è stato agitato da ufficiali, anche reduci dall’Iraq, critici sull’impiego di forze tradizionali, artiglieria carristi, in uso contro l’insorgenza, sempre più preoccupati dalla perdita di preparazione specifica da parte di quelle truppe. Problema non di lieve conto.

Anche la Commissione Winograd, costituita in Israele per analizzare la crisi delle forze armate di quel paese durante la guerra con gli Hezbollah nel 2006, era arrivata a conclusioni analoghe: uno dei motivi del deficit di combattimento era da ricercarsi proprio nell’uso improprio dei soldati che per anni, durante sia la Prima che la Seconda Intifada, erano stati usati più come forze di polizia che come esercito.

La risposta del generale Mattis è semplice, chiara ma non facile. La natura della guerra non è cambiata; ogni combattente si trova ad adattare strategie, tattiche e metodi di combattimento sulle modalità d’azione e sulle forze del nemico. Anche la risposta è una sola: “improvvisare, improvvisare, improvvisare”. Ogni guerra, e in modo particolare ogni guerra asimmetrica, è diversa dall’altra e quindi improvvisare significa anticipare, conoscere per prepararsi ad agire “prima”, per riprendersi l’iniziativa.

Oggi le guerre moderne non si svolgono solo sul campo di battaglia, “sfide e minacce non sono solo strettamente militari”. C’è bisogno di un nuovo concetto di “sicurezza” che trascenda i limiti ristretti delle vecchie dottrine strategiche; un nuovo concetto di sicurezza allargata che sappia far fronte alla molteplicità dei mezzi sia militari che altri, che possono essere usati simultaneamente e non.

Se certamente non è finita la vecchia dicotomia tra grandi conflitti convenzionali e piccole guerre irregolari, bisogna riconoscere la complessità dei tempi. Non solo Al Qaeda, attore non statale e per di più di matrice religiosa,  ha sferrato un attacco globale, ma lo stesso conflitto israelo-palestinese sta assumendo tratti confusi e spesso sembra una guerra combattuta per procura dove minacce con armi tradizionali, missili e nucleare, si accompagnano al terrorismo e all’uso cinico dei media, delle ONG per i diritti umani, della diplomazia che riescono a far breccia tra i nemici, a dividere il fronte avverso tra i duri e i paesi a favore delle trattative. Da qui la nuova espressione che sta circolando da qualche tempo di “guerre ibride”.

Questa è la nuova sfida per il governo americano, ma in modo particolare per Israele: come riuscire a costruire un esercito in grado di combattere tipi diversi di guerra, in che modo coordinare il lavoro del Pentagono e del Dipartimento di Stato, spesso in conflitto tra loro (si vedano i primi tempi in Iraq), e in che maniera riuscire a gestire un conflitto come qualcosa di più complicato del vincere una guerra, guerra che ormai è composta da una serie di azioni che arrivano dallo scontro fino alla pacificazione e alla ricostruzione del paese.