La Invincibile Armada e i nove giorni che cambiarono la storia
29 Marzo 2009
Solo nove giorni fra luglio e agosto del 1588, eppure un vero “tornante della storia”. Ossia la sconfitta, davvero epocale, inflitta dai nocchieri di Elisabetta I agli hidalgos di Filippo II. Una débâcle lungo il canale della Manica che mette per sempre fine ai sogni universalistici del monarca spagnolo, affermando, al contrario, il via libera all’egemonia britannica sui mari. Il racconto di quella straordinaria epopea, insieme alle premesse e alle conseguenze, si ritrova in un libro scritto da un economista della Bocconi con la passione per le pugne navali.
Il volume si intitola “La disfatta dell’Invincibile Armada” – autore Antonio Martelli, prof. di Strategia e politica aziendale – ed è uscito per i tipi del Mulino nell’anno appena trascorso senza suscitare particolari riscontri. Invece, si tratta di un testo ricco di particolari, ben scritto e di notevole efficacia divulgativa. I dettagli bellici sono moltissimi, così le descrizioni di tecnologie militari e marinaresche. Ottimi i ritratti degli attori principali. Le pagine sul sovrano iberico sono, ad esempio, particolari ed equilibrate. Lavoratore “instancabile”, a tratti maniacale quando non visionario, eppure dominato da un altissimo concetto della sua funzione. In sintesi: un campione dell’assolutismo. In una mezza pagina, Martelli, enumerando semplicemente i principali consigli amministrativi centrali della Spagna del tempo, dà un’idea del carattere insieme laborioso e nevrotico con cui il re gestiva, normalmente, gli affari di Stato.
Filippo II aveva nella sua disponibilità “una quindicina di Consigli, cinque dei quali erano istituiti dai bisnonni del re…, cinque istituiti da lui e gli altri preesistevano. Vi era anzitutto il Consiglio di Castiglia, che fungeva da corte di giustizia suprema; quindi l’Inquisizione, che controllava i ventuno tribunali del Santo Uffizio…; il Consiglio degli Ordini Militari; il Consiglio della Crociata, che amministrava la cruzada, cioè il sussidio concesso dal papato per la lotta contro gli infedeli; e il Consiglio di Aragona, dal quale dipendeva il Consiglio d’Italia, che amministrava i possedimenti italiani. Dal Consiglio di Castiglia, che si occupava degli affari interni del regno omonimo, dipendevano, almeno formalmente, la Cámara; il Consiglio di Stato, che si occupava della politica estera e dal quale dipendevano a loro volta il Consiglio del Portogallo e quello delle Fiandre; il Consiglio delle Indie, che aveva compiti analoghi per le Americhe; il Consiglio della Guerra, il Consiglio delle Finanze e la Junta de Obras y Bosques, che amministrava gli immobili…”.
A questa lista iniziale, andrebbero aggiunte altre strutture di tipo particolare. Tutte comunque di carattere rigorosamente consultivo, perché Filippo II “osservò gelosamente fino alla fine il principio secondo il quale tutte le ordinanze e i mandati dovevano essere muniti della sua firma autografa: e in effetti su molte questioni fu lui solo a prendere la decisione finale”. Una complessità che nello scontro armato procurava più di un problema. Le risoluzioni degli ammiragli iberici erano fissate nel dettaglio, e l’autonomia decisionale ridotta al lumicino. Altro respiro godevano gli inglesi, con alle spalle un regime più elastico, dove la Riforma aveva migliorato lo spirito pubblico oltre a creare un “embrione di governo rappresentativo”. I britannici avevano poi capitani migliori (Drake su tutti), navigli più maneggevoli e adatti all’Atlantico e cannoni più sofisticati. Per il resto, furono la fortuna e il maltempo a dire no al megalomane disegno di Filippo II.