La laurea (mancata) di Patrick e il suo suicidio, grido muto di una fragilità inespressa
15 Novembre 2018
di Carlo Mascio
14 novembre. Una giornata come tante. Non per tutti. Non per Patrick Ceccomarini che ieri si è tragicamente tolto la vita gettandosi dal balcone di casa davanti agli sguardi increduli dei suoi genitori, parenti e amici. Eh sì, perché Patrick li ha voluti tutti con sé. Aveva organizzato nel dettaglio la festa della sua laurea. Tutti erano pronti per andare ad Urbino – da Colli al Metauro, paese di Patrick, non ci vuole tanto – per festeggiare. Tutti tranne Patrick. Per la laurea mancavano ancora due anni, ma lui non era riuscito a dirlo ai suoi genitori. Troppo forte la delusione che gli avrebbe arrecato. E allora, invece di preparare il discorso della tesi, ha lavorato per vedere come uscire di scena. Definitivamente.
Motivo? “I carabinieri, quando sono saliti in casa della famiglia, hanno trovato biglietti di Patrick in salotto, in camera, in cucina. Tutte indicazioni che portavano ad individuare una pennetta Usb dove il ragazzo aveva girato un video (ma ce ne sono almeno 3). Che i carabinieri hanno visto. Patrick, pacato, deciso, senza inflessioni, dice di aver deciso di farla finita e non per colpa di qualcuno ma solo della sua fragilità” si legge sul Resto del Carlino di Pesaro.
Sì, avete letto bene. Il problema non era qualcuno, ma la sua “fragilità“. Non sappiamo cosa si sia mosso nel cuore di Patrick, non sappiamo cosa sapevano o meno di lui i suoi cari ed i suoi amici, ma una cosa è certa: Patrick si è sentito solo. Tanto solo da decidere di chiuderla qui. Se solo avesse parlato con qualcuno, difficilmente crediamo che non avrebbe trovato accoglienza, in primis dai suoi genitori. Invece no. Patrick, a quanto pare, si è chiuso in un silenzio di tomba, schiacciato dal suo peso.
Forse però, caro Patrick, non è vero che è colpa della tua fragilità. È colpa di qualcuno! È colpa nostra. Nella società di oggi non c’è posto per le fragilità. Spaventa troppo. Meglio puntare ad essere perfetti, senza difetti, salvo poi arrivare alla fine della vita e capire che di perfetta c’è solo una verità: la perfezione come perfezionismo non appartiene all’uomo. Questa ossessione al perfezionismo porta alla schizofrenia. Perché? Perché porta con sé una menzogna: vali se…conti, se hai ruoli, se hai soldi, se hai potere. Invece no. L’uomo, così com’è, con le sue debolezze e le sue fatiche, è già perfetto, va già bene, ha già un valore enorme. L’uomo, ogni uomo, vale semplicemente perché esiste. Non ha bisogno di patenti valoriali. Non una laurea, non una carica, non un ruolo dicono quanto valgo!
Oggi, invece, scegliendo il perfezionismo scegliamo la solitudine. Eh sì, perché per essere senza difetti non possiamo avere a che fare con le fatiche dell’altro. Non possiamo perdere tempo ad ascoltare i problemi di un amico, le paranoie di mio marito o di mia moglie, la storia del vicino di casa che è sul lastrico. Non c’è tempo per la fragilità, perché viviamo nell’inganno che scansandola la possiamo fare fuori ed arrivare così alla perfezione. Tv, rotocalchi, media e modelli sociali, ci fanno credere che questa è la strada per il successo. E invece è quella della solitudine estrema. Perché la fragilità, fosse anche quella di un corpo che, prima o poi, invecchia, fa parte di noi!
E allora, non sarà che questa serva a qualcosa? Sì, serve a ricordarci che siamo già veramente perfetti, ma nel senso etimologico del termine “fatti per”, fatti per qualcuno, per condividere la vita con qualcuno. La mia e la tua fragilità se condivise creano ponti e non muri. Chi di noi non crolla (almeno emotivamente) di fronte a qualcuno che gli racconta la propria storia travagliata, la ferita di una vita? A tutti sarà capitato di provare moti interiori di compassione. La vera perfezione abita nel condividere e nel relazionarci con l’altro, accogliendo prima i suoi difetti, perché saranno questi a rivelarci i suoi pregi. Ma questo sarà possibile solo se ci concediamo di conoscere a fondo la nostra fragilità, fino ad amarla. E allora sì che si realizza il precetto evangelico: ama il prossimo tuo come te stesso! Se non accolgo la mia fragilità non potrò accogliere quella del mio vicino.
Come fare affinchè non ci siano più casi come quello di Patrick? Almeno dal punto di vista politico e legislativo è tutto da vedere. Qualche proposta è rimbalzata qua e là, ma ancora nulla di concreto. Tuttavia una cosa è sicuramente certa e necessaria: più che palestre per farci belli e tenerci in forma (serve anche questo, per carità!), occorre favorire e creare palestre di umanità, percorsi di comunità, dove si cresce e si condivide insieme la vita, la propria storia, le proprie gioie e le proprie fatiche. Solo così può crollare la falsa reggia di indifferenza in cui siamo tentati a chiuderci. Anche perché lì dentro saremmo pure comodi, ma infelici. Mentre mettendosi nei panni, anche sporchi, del nostro vicino, non saremo mai soli e per questo sicuramente felici.
Grazie Patrick per averci ricordato tutto questo!