La Lega deve battere sul federalismo, ma non su quello all’italiana

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La Lega deve battere sul federalismo, ma non su quello all’italiana

La Lega deve battere sul federalismo, ma non su quello all’italiana

07 Aprile 2010

E’ comprensibile la reazione suscitata in campo laico dalle dichiarazioni poi rettificate dopo l’opportuno intervento del ministro Fazio – dei due governatori leghisti – Luca Zaia (Veneto), Roberto Cota (Piemonte) – che si erano impegnati a studiare tutti i modi per non far arrivare la piccola abortiva Ru486 negli ospedali.”Le tre regioni – aveva commentato Adriano Prosperi su ‘Repubblica’ – ci si presentano oggi come un territorio che si vorrebbe libero dalle leggi della Repubblica, un territorio vaticanizzato in un’Italia mai così lontana dall’unità nazionale”. Non m’intendo di bioetica e quanto alla pillola in questione tendo a rimettermi all’opinione degli esperti e, in particolare di Silvio Garattini (scienziato cattolico) che sul tema si è pronunciato con parole chiare e inequivocabili. Quanto all’aborto, poi, resto convinto che il ‘grumo di cellule’ dopo un certo numero di settimane sia “qualcosa”, lo si chiami persona o in altro modo, e che non si abbia il diritto di sopprimerlo se non a certe condizioni fissate rigorosamente dalle leggi. E mi farebbe piacere, aggiungo, se nelle retoriche celebrazioni di Norberto Bobbio si ricordassero, sia pure en passant, le sue perplessità etiche sull’interruzione di gravidanza (condivise, va detto, con grande scandalo dei radicali, da Giuliano Amato).

 

 Il problema che intendo sottoporre all’attenzione del lettore è un altro e riguarda il nostro disinvolto ‘federalismo all’italiana’, legittimato dal Titolo V della Costituzione italiana che le sinistre al governo vollero nella loro strategia di avvicinamento alla Lega – ”costola della sinistra”, come appariva sotto il profilo ideologico a Massimo D’Alema. E’ un federalismo, a dir poco, anomalo che conferisce ai governatori il potere di rendere irrita e nulla una legge dello Stato sui loro territori, si tratti di legge giusta e condivisa o , al contrario, di una legge che induca i governati (non i tutori dell’ordine…) alla disobbedienza civile. E’ un potere sul quale si dovrà riflettere seriamente giacché produce nel sistema politico contraddizioni e disorientamento e, tra gli altri guasti, attiva nell’opinione pubblica e sui giornali un doppiopesismo in contrasto con lo spirito della Costituzione, i cui principi, per loro natura, dovrebbero essere semplici e inequivocabili per tutte le parti politiche e per tutte le famiglie ideologiche.

 

L’ultima campagna politica dimostra quanto tali preoccupazioni siano fondate. Quando  le due candidate del Lazio, Emma Bonino e Renata Polverini, dichiararono che non avrebbero mai consentito l’installazione di centrali nucleari nella loro regione, non ci fu alcuna levata di scudi da parte dei difensori della Costituzione antifascista e dell’eredità mazziniana e risorgimentale. Nessuno fece presente che nelle culle storiche del federalismo, la Svizzera e gli Stati Uniti d’America, un governo democratico che, in nome dell’interesse collettivo, decidesse di rimettere in funzione Montalto di Castro, non sarebbe disposto a tollerare alcun veto da parte degli Stati membri. Dire, come hanno detto in sostanza Bonino e Polverini: “poiché noi non vogliamo correre alcun rischio, le centrali portatele in Sila o nel Salento – dove potrebbero anche essere ospitate in cambio di posti di lavoro e di altre munificenze statali…”, significa dare un colpo di piccone non solo allo Stato unitario e accentratore ma a qualsiasi altro tipo di Stato anche federale .

 

 All’origine di certe ‘sfide’ disinvolte e di certi (oggettivi) atti di insubordinazione, ritroviamo, ancora una volta, il nostro vecchio costume di casa in base al quale non è la violazione di una norma ad essere riprovevole ma il contenuto della norma che motiva la protesta del disobbediente. Secoli di cultura cattolica, da un lato, di romanticismo politico e di socialismo marxista, dall’altro, hanno ingenerato abiti della mente e disposizioni del cuore che portano a ritenere che il rispetto dovuto a una legge non è motivato dall’essere stata approvata seguendo le procedure e dopo ampio dibattito democratico ma unicamente dal suo rispecchiare il “comune sentire etico”, dalla sua capacità di realizzare il bene e di mettere al bando le azioni non virtuose – dove, naturalmente, il ‘bene’ e la virtù’ sono definiti dalle chiese, dalle ideologie, dalle militanze reazionarie o libertarie. E’ la ‘sostanza’, in parole povere, che conta e non la ‘forma’: della ‘saggezza dell’Occidente’, fondata sulla legittimità formale, si stanno perdendo la nozione e il ricordo. In cambio, prendono sempre più piede la mediterraneizzazione dell’intelligenza e la giustizia di cadì, che i giuristi progressisti spesso ripropongono sotto le rassicuranti vesti dell’”equità”. In tal modo, una norma che ripugni alla coscienza dell’agente esonera dal rispetto: se il divieto dello spinello sembra eccessivo e illiberale lo si può tranquillamente ignorare organizzando pubbliche sfumacchiate di sfida alle autorità; se il livello di imposizione fiscale è troppo alto (e in Italia, stando all’economista Franco Modiglioni, si configura talora come un vero e proprio esproprio), si evadono le tasse, se lo stipendio è insufficiente, si è esonerati persino dal minimo di prestazioni richieste (poco mi danno, e poco faccio). In questa logica, chi si oppone al nucleare o alla TAV si sente in dovere di fermare i treni, occupare le piazze, mobilitare il popolo antagonista in nuove ‘marce su Roma’; chi si oppone alla ‘banalizzazione dell’aborto’ – come, bontà sua, il ministro Gasparri ha definito la posizione di quanti non condividono le sue idee – propone boicottaggi destinati a riscuotere immancabilmente gli applausi di quella parte della società civile che rimpiange ‘Il Sillabo’ e Pio IX.

 

Dispiace dover dare ragione a Adriano Prosperi – uno storico che quando scrive del presente berlusconiano sacrifica sistematicamente la ragione alla passione – ma in alcuni politici e intellettuali del centro-destra, il progetto federalista si configura quasi come una ‘riapertura dei conti’, una rimessa in discussione della soluzione sabauda e della ‘conquista regia’ che non si limita più all’insindacabile gestione delle risorse prodotte in loco (come era ancora il federalismo per Carlo Cattaneo) o alla salvaguardia di usi e tradizioni che non intaccano i diritti civili e politici dei residenti ‘non indigeni’, ma si avventura, altresì, in una revisione profonda della ‘political culture’ dei nostri Padri Fondatori, da Cavour a Minghetti, e della ‘civiltà giuridica’ che essi volevano portare nei domini del papa e dei Borboni. Si ha la penosa sensazione che si stia rinunciando a far valere, sull’intero territorio, il principio che il ricorso alla pillola abortiva è un diritto o, al contrario, un reato per tutti, che l’energia nucleare è un bene o, al contrario, una minaccia per tutti. Non condivido quasi nulla di quanto pensa, scrive e consiglia Eugenia Roccella – una militante che, abbandonando il Campo di Agramente radicale, ha portato in quello paladino gli stessi umori illiberali – ma quando, nella recente intervista rilasciata a Cristiana Vivenzio su ‘L’Occidentale’, dichiara “personalmente  sono contraria al fatto che ci siano diverse sanità in Italia” non si può non darle ragione.

 

La nostra ‘logica delle autonomie’, e non solo nel linguaggio di qualche governatore, si compendia nella tesi che se alcune regioni sono perdute per una sana etica sociale – sia quella ispirata dalla Chiesa post- e sottilmente anti-conciliare, sia quella laicistica di chi ha eletto a sua guida il relativismo morale ma dal rispetto del pluralismo dei valori esclude quelli “reazionari” – occorre prenderne atto e ritagliarsi enclave protette, dove contare le forze, organizzarle e, semmai, preparare, sui tempi lunghi, la ‘reconquista’ dell’Italia. In fondo, è la filosofia di Raffaele Lombardo e del suo movimento autonomista che recupera memorie storiche che sarebbero da rimuovere per carità di patria, a cominciare dai protagonisti del separatismo del secondo dopoguerra (v. l’esaltazione dell’ambigua figura di Antonio Canepa), e getta il discredito su Garibaldi e gli altri simboli dell’unità d’Italia, ai quali attribuisce tutti i mali dell’isola, dimenticando che non c’è una sola grande figura della ricchissima cultura siciliana – da Gaetano Mosca a Napoleone Colajanni, da Luigi Pirandello a Leonardo Sciascia – che sia stata tentata dal revanscismo legittimista, nonostante le delusioni ingenerate dallo Stato unitario, monarchico prima, repubblicano dopo.

 

 Com’è noto, la vecchia DC era piuttosto riluttante a dare l’avvio alle regioni pur iscritte nella Costituzione repubblicana. Furono, in sostanza, il fattore K che escludeva il PCI dal governo, da un lato, e l’arrivo dei socialisti nella stanza dei bottoni, dall’altro – il PSI era un partito di medie dimensioni, chiamato, in sostanza, a farsi portavoce anche delle masse comuniste che, per le ragioni iscritte nella formula inventata da Alberto Ronchey, non potevano entrare a Palazzo Chigi – a realizzare l’ordinamento regionale. Per il PCI, era una sorta di ‘compenso dovuto’, stante la forza del suo elettorato, dei suoi sindacati, delle sue cooperative; per il PSI, un modo di far vedere quanto prendesse a cuore gli interessi della classe operaia e delle sue organizzazioni ben radicate in certe aree del paese. Il raggiunto compromesso tra la DC e gli altri partiti, volto a stabilizzare in certo modo il sistema (se non c’è posto per te a Roma, c’è a Bologna, a Firenze etc.) non aveva nulla di ideologico, non era fondato su un impegnativo progetto culturale, a parte i soliti vaghi richiami a Carlo Cattaneo (più amato, comunque, dagli eredi di Carlo Rosselli che non da quelli di Antonio Gramsci). Per quanto riguardava le dinamiche di potere, la regione sapeva di accomodamento provvisorio, di una sistemazione più o meno confortevole in attesa di tempi nuovi e della caduta delle non immotivate pregiudiziali nei confronti di una classe politica che era stata ligia a Mosca e a Stalin.”Oggi in Emilia, domani in Italia” era l’arrière pensée di quadri dirigenti che avevano il giacobinismo nel sangue. Delle regioni, non a caso, non era stato per nulla entusiasta Palmiro Togliatti –diffidente, ahimé e con quanta ragione, pure della Corte Costituzionale – che, nel bene e nel male, si muoveva all’interno di un’ottica nazionale (‘la via italiana al socialismo’) e guardava alla politica internazionale e alla lotta contro l’imperialismo e il colonialismo sotto la guida del ‘Grande Fratello’, il PCUS, come ai grandi problemi di cui dovessero occuparsi la classe operaia e i suoi dirigenti. Uno scetticismo non dissimile, ma diversamente motivato, caratterizzava il piccolo partito liberale che vedeva dissolversi, sui tempi lunghi, l’edificio unitario messo su con enorme fatica dal più grande liberale del Risorgimento italiano, il Conte di Cavour. A volere, con profonda convinzione le regioni fu, invece, quella vasta e composita area socialista non marxista, ricca di fermenti girondini e libertari, fiduciosa nella partecipazione politica vista come ‘autoeducazione delle masse’, che oggi ci appare come la vera subcultura egemone pur se incapace – a differenza delle altre subculture cattolica e comunista  – di monetizzare elettoralmente la sua capillare penetrazione nel mondo dei mass-media e delle istituzioni culturali. Per il PCI la retorica autonomista era il grande albergo offerto ai terremotati della storia dopo la caduta dei suoi solidi sostegni internazionali – e,va detto, che i suoi quadri seppero bene approfittarne, dando talora prova di una ineccepibile amministrazione (la stessa, d’altronde, che oggi si riconosce, sia pure obtorto collo, ai leghisti..). Quant’acqua è passata da allora sotto i ponti della storia!

Oggi, per la sinistra, le regioni non sono più basi di partenza per l’esportazione dei suoi modelli in tutta la penisola ma fortezze in cui asserragliarsi e difendersi dall’assalto delle nuove tribù barbariche (PDL e Lega); per la Lega, sono la liquidazione dell’artificiale e il (quasi) ritorno al ‘naturale’ovvero a individualità diverse e irriducibili – i popoli dello stivale – che se proprio intendono rimanere collegati debbono statuire nuovi patti di convivenza, in mancanza dei quali la secessione diventa inevitabile. Nella barca antiunitaria si ritrovano, così strani compagni di viaggio: eredi del democratismo azionista, leghisti, cattolici tradizionalisti, e, per opportunismo, ex comunisti ed ex democristiani. Ne restano fuori i pochi liberali ancora esistenti in Italia che si ostinano a non imenticare che cosa rappresentò, per l’Italia e per l’Europa, il 1861 e restano convinti che non sono le ‘autonomie’ e la ‘partecipazione’ a far difetto nel nostro paese ma la garanzia dei ‘diritti soggettivi’ sempre più erosi dall’invadenza della sfera pubblica.