La legge sulle Dat è utile anche per non lasciare la scelta ai magistrati

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La legge sulle Dat è utile anche per non lasciare la scelta ai magistrati

05 Agosto 2011

Chi ancora avesse dubbi sull’opportunità e l’urgenza di una legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, potrebbe dissiparli considerando la vicenda della donna di Treviso e della relativa sentenza del giudice tutelare.

Il titolo dell’articolo sul Gazzettino di Treviso di qualche giorno fa dice tutto: “Voglio morire: e il giudice dà l’ok”. A quanto si sa, la signora è affetta da una grave malattia degenerativa, e ha già rinunciato a una tracheotomia e ad una trasfusione. Lo scorso gennaio si è rivolta ad un giudice tutelare per nominare suo marito amministratore di sostegno e per chiedere di non utilizzare farmaci salvavita se si fosse aggravata e non fosse stata più in grado di intendere e di volere; il giudice ha acconsentito.

La vicenda però (da notare che la sentenza risale a 8 mesi fa, ma sui giornali è finita adesso) è stata utilizzata per sparare contro la legge appena passata alla Camera, che in autunno sarà discussa, si spera definitivamente, anche al Senato. Con la nuova legge, si dice, la rinuncia alle cure non sarebbe possibile e la signora di Treviso sarebbe obbligata a subire interventi, come la tracheotomia, che non desidera. Non è così e chi lo sostiene o è in malafede o semplicemente non ha letto il testo di legge.

Innanzitutto, bisogna distinguere fra la situazione di un paziente vigile, in grado di intendere e volere, e uno che non lo è più. Nel primo caso la legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, nella versione attuale, consente sia di non attivare trattamenti che di revocare il consenso a quelli già iniziati, indipendentemente dal fatto che siano salvavita o meno. Quindi, se la normativa fosse già in vigore, la signora non avrebbe bisogno di rivolgersi ad alcun giudice per rifiutare le cure: lo ha già fatto e potrebbe sempre farlo.

Diverse sono le questioni che si pongono quando il paziente non sia più capace di intendere e volere. Il giudice di Treviso, autorizzando il generico rifiuto di trattamenti salvavita, rischia di creare problemi più che di risolverli. Chi dovrà stabilire quali siano questi trattamenti? Anche un farmaco da banco può, in certe condizioni, salvare una vita: può essere salvavita una pomata antibiotica contro le infezioni da decubito, oppure un antistaminico, o persino un’aspirina. E chi deciderà sulle concrete condizioni della malata: il magistrato, l’amministratore di sostegno, un parente, oppure il medico? Sembra logico che non possa essere altri che il medico a valutare la situazione clinica della paziente, tenendo conto dei suoi “desideri precedentemente espressi”, come recita la Convenzione di Oviedo. Ed è esattamente quello che è scritto nell’attuale disegno di legge sulle Dat.

La verità, temo, è che si vogliono legittimare pratiche ai confini con l’eutanasia e il suicidio assistito, mascherandole da libera scelta dei trattamenti sanitari. La Costituzione italiana garantisce al cittadino la possibilità di scegliere le terapie, e questa libertà non sarà limitata, bensì rafforzata dalla legge sulle Dat, che rende obbligatorio, per la prima volta, il consenso informato. Nessuno, dunque, potrà più attuare una pratica medica senza l’esplicito consenso del paziente. Il suicidio assistito e l’omicidio del consenziente, invece, sono già vietati espressamente dal nostro codice, senza alcun bisogno di attendere la normativa sul biotestamento. Ma sentenze come quella di Treviso si spingono ai confini con il suicidio assistito: che altro significa la frase riportata tanto efficacemente nel titolo del Gazzettino? “Voglio morire: e il giudice dà l’ok”. C’è una volontà di morte, e ci dovrebbe essere un medico che, legittimato dal giudice, è chiamato a dare la morte. Ma lo Stato (e in particolare il sistema sanitario nazionale, creato per curare, guarire, assistere) può togliere la vita a un cittadino? E inoltre, si può obbligare una terza persona, un medico vincolato al giuramento di Ippocrate, a sopprimere qualcuno grazie a una sentenza?

Sono questioni gravi, che non possono essere affrontate in modo estemporaneo da qualche magistrato, magari con sentenze di tipo diverso secondo il tribunale interpellato. In una democrazia è il Parlamento il solo a poter decidere. La legge, ormai in dirittura d’arrivo, serve più che mai: e va anche ricordato che finora ha riscosso un consenso ampio e trasversale sia alla Camera che al Senato, proprio perché rappresenta un buon punto di equilibrio tra le garanzie per la libertà personale e quelle a favore della vita umana, in particolare quella in condizioni di fragilità.