La leggenda della “partita della morte” tra eccidi nazisti e propaganda rossa
05 Aprile 2009
L’afosa estate ucraina, nell’agosto del 1942. Il 9 agosto, per la precisione. Le gradinate dello stadio sono piene di soldati della Wehrmacht, nell’uniforme che solo i più anziani ricordano ormai direttamente dai tempi dell’occupazione, ma che in tanti hanno imparato a conoscere dai film di guerra: la giubba in panno verde; i calzoni infilati negli stivali; l’aquila sul taschino destro; l’elmetto con le caratteristiche sporgenze a secchio di carbone; il cinturone con la tracolla; il contenitore a tubo della maschera antigas; le granate dal manico di legno. E armi in quantità: comprese un bel po’ di mitragliatrici Mg, le micidiali “seghe di Hitler” dalla canna bucherellata. Proprio le Mg iniziano a sparare dopo il goal, contro le gambe dei giocatori della squadra che ha segnato. Ma questi insistono: altro goal e altri spari, altri spari e altri goal. È una formazione trionfatrice ma ormai decimata quella che arriva al triplice fischio finale: ma solo perché i superstiti siano giustiziati a loro volta. La Start, la squadra massacrata, era infatti composta da giocatori dell’ex-campionato sovietico: 8 della Dinamo Kiev e 3 della Lokomotive Kiev. E i loro avversari, una rappresentativa mista di soldati tedeschi e ungheresi.
Una storia forte, indubbiamente. Ma quella è solo la versione raccontata da Simon Kuper nel suo "Calcio e potere". Ne circolano infatti altre varianti, e già quelle che si trovano su Wikipedia nelle differenti lingue non combaciano tra di loro. La voce in spagnolo “Fc Dinamo de Kiev”, per esempio, racconta che la partita non la giocò la Start ma direttamente la Dinamo. E che “i giocatori della Dinamo erano operai di fabbrica con scarsa preparazione calcistica”. Che lo stadio sarebbe stato pieno di tifosi ucraini. Che durante l’intervallo del primo tempo, sul 2-1 per gli ucraini, un ufficiale tedesco si sarebbe recato negli spogliatoi ad avvertire “che i tedeschi non avevano mai perso una partita nei territori occupati, e che se perdevano la partita sarebbero stati tutti fucilati”. E anche che sul 4-1 l’arbitro avrebbe concluso il match al sessantesimo, dopo di che i giocatori sarebbero stati tutti condotti in un burrone, per l’esecuzione: un massacro “poi confessato al Processo di Norimberga”.
Ma guardiamo, sempre su Wikipedia, “La partita della morte” in italiano. L’incontro era stato tra la Start e “una squadra composta da ufficiali tedeschi della Luftwaffe”. “La città era deserta, ma lo stadio era pieno di poliziotti e di nazisti”. Il primo tempo si sarebbe concluso a favore della Start non per 2-1, ma per 3-1. Dopo l’avvertimento negli spogliatoi, effettivamente i tedeschi si sarebbero portati all’inizio della ripresa sul 3-3. Il risultato finale sarebbe stato 5-3, dopo di che “subito i giocatori capirono, però, di averla fatta grossa e si sentirono in pericolo, tanto che non avrebbero voluto più abbandonare il terreno di gioco”. Solo l’attaccante Korotkikh sarebbe stato torturato e poi fucilato subito, mentre altri sette giocatori finirono in un lager, dove alcuni sarebbero stati uccisi per rappresaglia in capo a qualche giorno. Tra essi, il portiere. Ma ci sarebbero stati due superstiti: Sviridoskiy e Makar Goncharenko, autore della doppietta del 3-1.
Senza neanche cambiare lingua ma restando all’italiano: voce Dinamo Kiev, e il risultato finale diventa 3-1. “Per rappresaglia tutti i giocatori ucraini furono uccisi subito dopo la partita, tranne il portiere Nikolai Trusevich, che venne portato nel campo, fatto mettere in porta, e un cecchino appostato dal dischetto del calcio di rigore lo fucilò al cuore”. In compenso apprendiamo da questa fonte che “durante la seconda guerra mondiale molti giocatori della Dinamo non riuscirono a mettersi in salvo dagli occupanti tedeschi e vennero impiegati come prigionieri di guerra nel locale panificio; venuti a conoscenza della presenza di questi calciatori i tedeschi decisero di mostrare la loro superiorità formando una selezione mista di tedeschi e ungheresi, sfidando una selezione formata da otto giocatori della Dinamo: Nikolai Trusevich, Mikhail Sviridovskiy, Nikolai Korotkikh, Aleksey Klimenko, Fedor Tyutchev, Mikhail Putistin, Ivan Kuzmenko, Makar Goncharenko e tre giocatori del Lokomotiv Kiev anch’essi rimasti a Kiev: Vladimir Balakin, Vasiliy Sukharev, e Mikhail Melnik. La selezione Ucraina dapprima affrontò la partita sapendo che doveva assolutamente perdere, ma entrata nello stadio e vedendosi accolta da numerosissimi tifosi ucraini, i giocatori decisero di giocare seriamente per far vedere al proprio popolo uno spiraglio di luce in quel buio periodo. Gli ucraini travolsero i nazisti battendoli per 4 a 0. Allora i nazisti programmarono una nuova partita un mese dopo, con l’obbligo agli ucraini di perdere”.
Ma insomma, che successe davvero? In effetti la prima fonte della storia è in un articolo pubblicato il 16 novembre 1943 dall’organo ufficiale del governo sovietico “Izvestiya”, che però parlava solo dell’esecuzione di alcuni sportivi da parte dei tedeschi. È il giornalista Petro Severov che nel 1958 racconta la vicenda in modo dettagliato su un giornale di Kiev, in un articolo dal titolo L’ultimo duello. L’anno dopo la trattazione si allunga e diventa un libro, firmato dallo stesso Severov assieme a Naun Khalemsky. Vengono successivamente le memorie di Makar Goncharenko, il superstite. Ma a far decollare definitivamente la leggenda sono tre film di successo. Due del mondo comunista: "Due tempi all’Inferno" dell’ungherese Zoltán Fábri, del 1961; e "Il terzo tempo", noto anche come "L’ultima partita", del russo Yevgeni Karelov, del 1962. L’altro, il kolossal hollywoodiano del 1981 "Fuga della vittoria", di John Huston, anche se con la vicenda spostata da Kiev a Parigi e i giocatori sovietici trasformati in prigionieri alleati. In realtà si tratta del remake del Terzo tempo, da cui prende in particolare l’idea che i giocatori avrebbero rinunciato a un piano di fuga pur di fare bella figura in campo. Ovviamente, nell’Urss ci tengono a fare sapere che in realtà la storia del kolossal gli americani l’hanno scippata da loro. Così in quello stesso 1981 lo Stadio Zenit di Kiev, là dove il massacro sarebbe avvenuto, viene ribattezzato Stadio Start. Di fronte a esso, una grande scultura mostra oggi quattro figure maschili in calzoni corti, alte tre metri e con pettinature anni Quaranta, che vanno a braccetto con lo sguardo perso nell’orizzonte.
Già nel 1994, però, nel suo "Calcio e potere" Simon Kuper racconta di un viaggio in Ucraina alla sede della Dinamo Kiev da lui fatto due anni prima, dall’esito sorprendente. “L’addetto stampa mi raccontò la storia della partita, e poi mi chiese di non scriverla: perché non era vera. La partita era un mito ideato dopo la guerra dal Partito comunista locale. Senza dubbio una partita c’era stata, visto che un sopravvissuto, di ottantasei anni, viveva a Kiev, ma aveva oculatamente scelto di starsene zitto”. E nel 2004 Karel C Berkhoff pubblica per Harvard University Press "Harvest of Despair: Life and Death in Ukraine Under Nazi Rule", che permette infine di ricostruire la verità.
In realtà, ad avere l’idea di formare la Start non erano state le autorità di occupazione ma Iosif Kordik: un tifoso della Dinamo che godeva di una posizione privilegiata a motivo delle sue origini tedesche, e che era il proprietario di una famosa panetteria. Dunque, i giocatori non erano prigionieri di guerra, ma semplici atleti disoccupati cui un fan influente aveva intanto offerto quell’impiego per sbarcare il lunario, in attesa che il suo interessamento potesse permette loro di tornare a giocare.
Il primo incontro era stato quello del 7 giugno 1942 con il Rukh: una squadra appoggiata dal movimento nazionalista ucraino anti-sovietico e filo-tedesco. Risultato: 7-2 per la Start. Effettivamente una vittoria di alto spessore simbolico per una squadra erede di quella Dinamo che, come tutte le altre squadre con quel nome, era espressione del ministero dell’Interno. Sarebbero seguite altre vittorie a valanga, contro rappresentative di soldati tedeschi, ungheresi e romeni. Fino alla partita del 9 agosto, in cui, fin dall’inizio la Start avrebbe deciso di adottare un atteggiamento di sfida fin dall’inizio, rifiutando di fare il saluto nazista. Effettivamente la tolleranza del direttore di gara, un ufficiale delle Ss, avrebbe permesso ai tedeschi di mandare il portiere Trusevich in infermeria per un calcio in testa, e anche di andare in vantaggio. Ma gli ucraini vinsero comunque per 5-3.
Non c’è però nessuna rappresaglia, e anzi il 16 agosto la Start può giocare una nuova partita, contro la Rukh: nuova vittoria a valanga, per 8-0. È solo a questo punto che avvengono gli arresti di otto giocatori e le torture, sotto le quali muore Nikolai Korotkikh. Ivan Kuzmenko, Aleksey Klimenko, il portiere Nikolai Trusevich e Mikhail Putistin sono spediti al lager di Syrets, dove saranno uccisi attorno al febbraio del 1943. Ma in tre riescono a scappare grazie all’aiuto di un sorvegliante e a sopravvivere: Fedor Tyutchev, Mikhail Sviridovskiy e Makar Honcharenko.
In realtà, pare che la crudele rivalsa non sia stata causata dai risultati in campo, ma dall’improvvisa scoperta che, essendo stata la Dinamo Kiev squadra appunto del Ministero dell’Interno, tutti i suoi calciatori avevano la qualifica formale di membri della polizia segreta. Una riprova? I tre “ferrovieri” del Lokomotiv vennero invece lasciati in pace. Certo: è possibile che sia stato qualcuno dei “nazionalisti” del Rukh, inviperito per la disfatta, a denunciare che a Kiev c’erano ancora agenti della Nkvd a piede libero. Il fatto poi che lavorassero in una panetteria aveva reso il possibile complotto più allarmante: si trattava un tentativo dei servizi sovietici di avvelenare le truppe di occupazione?
Tratto da Maurizio Stefanini, "Ultras. Identità, politica e violenza nel tifo sportivo da Pompei a Raciti e Sandri", Boroli 2009