La lezione di Leo Strauss che c’è da leggere tra le righe
26 Settembre 2010
Vi proponiamo qui di seguito l’introduzione al libro di Raimondo Cubeddu, "Tra le righe. Leo Strauss su Cristianesimo e Liberalismo" appena pubblicato da Marco editore.
Esauritasi la bagarre su “Leo Strauss padre dei neo-conservatori” è possibile riprendere il discorso su un protagonista della filosofia politica del XX secolo con animo più pacato, e magari spostare l’attenzione su un tema forse anche più importante, come appunto quello delle sue critiche al cristianesimo e al liberalismo, che ha invece suscitato minore attenzione.
Sia alla luce della sua particolare ermeneutica, sia per il rilievo che quelle due tradizioni assumono nel pensiero di Strauss e nella cultura filosofica occidentale, si tratta di un compito impegnativo perché porta a chiedersi quale sia stato il loro ruolo nella genesi e nello svilupparsi di un progetto, quello della “modernità”, che oggi molti, forse frettolosamente, considerano prossimo all’epilogo.
Chi legge Strauss alla ricerca di indicazioni per comprendere quella dimensione purtroppo sempre più ampia e controversa del mondo rappresentata dalla politica, sa che intrattenersi sulle sue pagine è un’esperienza che non cessa di riservare sorprese e stimoli. A distanza di anni, si ripete quella sensazione di imbattersi in aspetti sempre nuovi e diversi della problematica della filosofia politica e della sua complessa storia, che già si era provata alla prima, e urticante, lettura di Strauss. Si dirà che questo è ciò che fa di un pensatore un “classico”. E la caratteristica di Strauss è di essere un “classico inquietante” perché le sue pagine, pur essendo raramente appassionate (ma quando lo sono si elevano ad una bellezza struggente), non lasciano spazio all’indifferenza.
Chiunque abbia anche soltanto iniziato a cimentarsi con i suoi scritti sa che non si tratta di una lettura facile, e che alla fine le risposte sono poche rispetto alle domande che le sue pagine fanno sorgere. Eppure, tanti tra coloro che hanno iniziato a leggerle – come chi scrive – non riescono a smettere. Non è facile dare una spiegazione del perché un sobrio signore che per decenni è stato soltanto un “professore di filosofia politica”, possa esercitare tanto fascino. Molti altri pensatori hanno avuto la vita e la riflessione segnata, più o meno dolorosamente, come Strauss, dagli avvenimenti della loro epoca; ma non è questo il suo “segreto”. E indagarlo non è il proposito di questo libro. Con esso, dopo oltre un quarto di secolo, e dopo aver affrontato altri pensatori ed altre tematiche, ritorno su un pensatore col quale non ho mai interrotto una consuetudine fatta di domande alle quali non è facile rispondere, e cerco di dar ordine a idee e a riflessioni accumulatesi nel corso degli anni e accennate in altri “scritti straussiani” di minore impegno.
Quel che da sempre mi ha affascinato di Strauss è la sua capacità di scuotere la mente e di non confondere la comprensione di un testo con la sua critica o con la sua condivisione. Di fatto, nella sua prospettiva i silenzi e le omissioni sono importanti quanto le affermazioni esplicite. Qui, seguendo per quanto possibile il criterio cronologico, ho preso le mosse da un esame dei passi delle opere in cui, a vario titolo, compare il cristianesimo. Ciò ha volutamente limitato il campo d’indagine e, purtroppo, ha richiesto l’inserimento (nel testo e nelle note) di lunghe e forse tediose citazioni, che hanno il compito di fornire indicazioni sulla complessità e sulle interpretazioni delle questioni trattate. Inoltre, quantunque le questioni toccate siano di dimensioni teoretiche, teologiche e storiografiche smisurate, le ho volute consapevolmente ridurre alla “dimensione straussiana”. Ma non è affatto detto si tratti di un “riduzionismo ottuso” e poco esplicativo.
Come si avrà modo di notare, su alcune delle interpretazioni di Strauss non mi sono trovato d’accordo e su altre ho delle perplessità, ma ognuna di esse mi ha aiutato a vedere il loro oggetto da una prospettiva che è stata comunque feconda. Se non altro per il fatto che mi ha indotto a rivedere precedenti convinzioni o, comunque, a formularle in modo forse più solido. Generalizzando un’esperienza, penso si possa affermare che il maggior e migliore insegnamento di Strauss sia quello di indurre a prestare attenzione al fenomeno dell’emergere delle novità, a quei momenti di frattura che inizialmente creano disagio e confusione, e che poi possono consentire di affrontare i problemi sotto una diversa luce la quale, talvolta, può portare a nuove e più esplicative mappe concettuali. In ogni modo – ricordando la lezione dei classici sulla filosofia e sul suo legame con la ricerca del “miglior ordine politico”, ma anche rammentando che il «problema teologico-politico» è irrisolvibile – sono convinto che a quanti hanno voluto ascoltarlo senza pregiudizi, Strauss abbia dato un contributo insostituibile per liberare la mente da una serie di miti e di ideologie a sfondo consolatorio fiorite e prosperate negli ultimi secoli, come lo Historicism, il Positivism, il relativismo e la teoria democratica, le quali, sia pure in maniere diverse, hanno fatto sognare quel mondo dell’armonia e della pacificazione universale che, anche nelle sue parziali realizzazioni, si è invece rivelato il mondo dello “stato tirannico”. Ideologie che purtroppo continuano a lasciare un segno anche se oggi, constatata la loro inconsistenza, può sembrare incredibile che fino a pochi decenni fa riscuotessero tanto credito.
Per questi motivi, al di là del contributo alla comprensione di problemi e di testi, l’eredità di Strauss penso consista nel richiamo a lezioni che si è voluto dimenticare, anzitutto quella che il miglior regime resta un obiettivo auspicabile quanto improbabile stanti la naturale ed insormontabile diversità tra gli uomini e l’inconciliabilità della filosofia con il potere politico e col suo esercizio. Una lezione puntualmente ignorata da quanti, da sempre, si affannano a giustificarli ricorrendo alle religioni, alle etiche, alla storia.
I problemi in cui ci si imbatte trattando della critica straussiana al cristianesimo e al liberalismo sono praticamente sconfinati, e richiedono di essere affrontati con la dovuta circospezione. Soprattutto se si tiene conto del fatto che Strauss, e non occasionalmente, esercita magistralmente l’arte della reticenza. Talora quei problemi li ho semplicemente accennati, altre volte ho fornito indicazioni per approfondimenti nella vasta letteratura; altre ancora, forse, mi sono semplicemente sfuggiti. Mi sono comunque, e consapevolmente, limitato a ciò che ha direttamente attinenza col tema; analizzando quei passi, quelle omissioni e quella letteratura critica che mi sono sembrati pertinenti. Il risultato, per una precisa scelta di carattere filologico, può appesantire la lettura; e sicuramente non è esaustivo. Ma si tratta di un piccolo tributo dovuto a Strauss, ai suoi interpreti e, soprattutto, all’importanza delle questioni che affronta.
Se infine ci si chiede quale sia la conclusione a cui penso d’esser giunto, oltre alla ricerca di un aiuto per capire il presente e al piacere di cimentarsi con testi e con problematiche impegnative, la risposta è abbastanza semplice: la condizione necessaria per mantenere la vitalità dell’Occidente è che la filosofia e la religione non siano sottomesse alla politica. Ma, pur riconoscendo la tragica grandezza del tentativo della politica di voler essere un rimedio per quegli uomini che pensano di uscire dall’incertezza accelerando i processi sociali, si tratta di un obiettivo che il fallimento dell’educazione di massa, e la conseguente dilatazione delle aspettative soggettive, delle opinioni (soprattutto di quelle che non sanno di essere tali) a scapito della conoscenza, e della sfrontatezza di chi per questo pretende tutto e subito, sta purtroppo collocando nell’affascinante ed ambiguo mondo delle utopie. Come, per altro verso, quella del contenimento della Politica.
Accanto a queste motivazioni “nobilmente scientifiche”, ad indurmi a rioccuparmi di Strauss vi sono anche altre motivazioni, contingenti ma non ignobili, come quella di vedere se egli poteva offrir indicazioni per comprendere meglio una questione, come quella della relazione tra cristianesimo e liberalismo, che in questi ultimi anni ha registrato molto interesse e accorati dibattiti. In breve non ritengo che il liberalismo sia una forma secolarizzata del cristianesimo, ma che sia il tentativo di superare quel «problema teologico-politico» che Strauss ritiene caratteristica ineliminabile dell’eredità cristiana e di quella parte della modernità che la ha secolarizzata. Ed in questa prospettiva mi sono chiesto chi abbia avvertito il problema e come lo abbia risolto. Una ricerca che, ancora una volta, mi ha indotto a cercar lumi in pensatori già abbondantemente indagati. Comunque, ciò che a tal ri guardo ho trovato in Strauss (e nei pensatori cattolici che di lui si sono occupati) concerne la curiosità, e può essere appagata dalla lettura (soprattutto delle pesanti note le quali, comunque, pos sono essere lette anche separatamente dal testo).
Insomma, e per dirla con sincerità, ho cercato di affrancarmi dai miei Autori, ma non ci sono riuscito! Non voglio negare di aver tentato di «intendere Strauss come egli si sarebbe inteso», ma poiché non penso di esserci riuscito (soprattutto perché sono consapevole del fatto che l’obiettivo non era alla mia portata), mi limito a dire che questo lavoro è il risultato di ciò che la sua lettura mi ha ispirato a pensare sulla relazione tra cristianesimo e liberalismo. Molti amici (Carlo Altini, Carlo L. Cordasco, Sergio Belardinelli, Adriano Fabris, Alberto Ghibellini, Giovanni Giorgini, Antonio Masala, Flavia Monceri, Mauro Pisanu, Amy Rosenthal), con suggerimenti, commenti e critiche, mi hanno aiutato a portare a termine il lavoro. Come capita, non sempre ci si è trovati d’accordo su tutto. Nel ringraziarli, lo dedico a loro, e a quegli altri amici ai quali immagino non piacerà anche se mi hanno dato spunti per scriverlo.