La Libia e noi: la questione del gas
01 Marzo 2011
In un precedente post ho spiegato perché il nostro approvvigionamento di petrolio non è messo a repentaglio dalla crisi libica. In questo mi occuperò del gas.
La mia tesi sul petrolio è che la guerra civile a Tripoli ha, ovviamente, un effetto sui mercati petroliferi. Ma, poiché esiste sufficiente capacità inutilizzata per rimpiazzare l’intera produzione libica (circa 1,8 milioni di barili al giorno) nel caso in cui essa venisse meno, sarà possibile trovare altro greggio per sostituire quel 25 per cento che l’Italia importa dalla Libia. Non c’è, insomma, motivo di timore sul fronte dei volumi. C’è e ci sarà una conseguenza sui prezzi (dovuta essenzialmente all’incertezza sulla possibilità che le rivolte si diffondano), che potrebbe essere esacerbata se la resa delle raffinerie italiane si riducesse nel trattare greggi diversi da quelli tradizionali. Ma un conto è dire che il petrolio lo pagheremo di più: altra cosa è sostenere che il greggio non ci sarà, a prescindere da quanto siamo disposti a pagare.
La principale ragione per cui il petrolio non ci crea alcun problema di sicurezza è che “the world market, like the world ocean, is one great pool”. Purtroppo, questo non è vero per il gas. Non esiste una “pozza mondiale” a cui tutti attingono: il gas per la massima parte viaggia via gasdotto, e i gasdotti non possono essere ridirezionati, vanno sempre da un punto A a un punto B. Esistono degli stagnetti che danno qualche margine di flessibilità: gli “hub” che servono mercati più o meno integrati (per esempio, per l’Europa, Baumgarten), dove è possibile acquistare volumi spot, e soprattutto il Gnl (gas naturale liquefatto). Il Gnl – che ha rappresentato nel 2009 il 28 per cento di tutte le importazioni, ossia circa un quarto di tutto il trading di gas al netto degli “autoconsumi” nazionali – ha una flessibilità comparabile al petrolio, ma può approdare solo dove esistono infrastrutture adeguate a riceverlo (i rigassificatori). Questo a livello generale. Qual’è la situazione dei rapporti tra Italia e Libia?
I due paesi sono collegati dal gasdotto Greenstream, che va da Mellitah in Libia a Gela in Sicilia. Greenstream ha una capacità di trasporto pari a circa 11 miliardi di metri cubi di gas all’anno, della quale nell’anno termico 2009-2010 era stata conferito l’83,4 per cento. Nel 2009, cioè, a Gela è entrata una quantità di gas pari al 13,2 per cento della domanda nazionale, ossia, in valore assoluto, 9,2 miliardi di metri cubi. Greenstream è stato chiuso in seguito ai fatti di Tripoli. Questo al momento non ci preoccupa, vuoi perché l’economia va come va, vuoi perché le temperature quasi marzoline sono miti (tranne che negli ultimi pochi giorni) e, quindi, la domanda di metano per riscaldamento è bassa. Supponiamo, però, che Greenstream resti chiuso per un periodo di tempo sufficientemente lungo: saremo in grado di rifornirci del gas che ci serve?
Come dicevo, nel caso del petrolio il vincolo a cui guardare era la produzione: se la produzione globale è sufficiente a coprire la domanda globale, ossia se esiste abbastanza capacità inutilizzata da assorbire lo stop libico, l’Italia non ha altri problemi che il prezzo. Per il gas la faccenda è molto diversa: il vincolo (in prima approssimazione e in questo momento) non è costituito dalla produzione mondiale di gas, ma dalla capacità di trasporto inutilizzata nelle infrastrutture esistenti. Cioè: dati gli attuali livelli di consumo e gli attuali livelli di utilizzo delle infrastrutture, possiamo (riempiendo di più tubi e rigassificatori) rimpiazzare le importazioni libiche? (Sto ragionando, per semplicità, al netto di eventuali deficit di trasporto nazionali).
Prima di entrare nel merito faccio un esercizio un po’ arbitrario. Nel 2008 l’Italia ha consumato 77,8 miliardi di metri cubi di gas, producendone 8,5. Nel 2009 ha consumato 71,6, di cui 7,4 autoprodotti. Assumo, scolasticamente, che nel 2011 l’economia andrà bene, e quindi la domanda di gas tornerà a metà strada tra i livelli 2008 e 2009, cioè a circa 75 miliardi di metri cubi. Assumo anche che la produzione nazionale continuerà a scendere, assestandosi a 5 miliardi di metri cubi. La mia ipotesi di partenza è che il paese dovrà procurarsi all’estero 70 miliardi di metri cubi di gas. Ce la faremo, senza Greenstream?
I conti sono presto fatti: la capacità conferibile su tutte le altre infrastrutture è pari a 108,5 miliardi di metri cubi (molto teorici), di cui 96 sui gasdotti esistenti, e 12 nei due rigassificatori di Panigaglia e Rovigo. Sulla carta, ci siamo. Nella pratica, il livello di saturazione dei tubi nel 2009 – in particolare per le tre pipeline maggiori, Tag dalla Russia, Ttpc dall’Algeria, e Tenp dal Nordeuropa – era sempre superiore al 90 per cento, e quindi senza grande capacità di manovra. Oltre tutto, nei mesi scorsi una serie di guasti al gasdotto Transitgas (che sta a monte di Tenp e lo rifornisce) ne hanno causato prima la momentanea interruzione e poi il funzionamento solo parziale, riducendo di fatto la disponibilità teorica. In sostanza, quindi, la nostra polizza di assicurazione contro Gheddafi ha nome e cognome: Edison-ExxonMobil-Qatar Petroleum che, mettendo in campo gli 8 miliardi di metri cubi di capacità del rigassificatore di Rovigo, hanno fornito capacità aggiuntiva sufficiente a offsettare quasi completamente la Libia.
L’analisi dei numeri, dunque, induce un moderato senso di tranquillità ma, a differenza che nel petrolio, la tranquillità è legata essenzialmente alle prospettive non proprio eccitanti di crescita economica. Se la domanda dovesse tornare ai livelli pre-crisi, o se la produzione nazionale dovesse scendere più rapidamente del previsto, potremmo avere qualche problema. Si tratta, comunque, di un’eventualità remota.
Quello che sta accadendo, però, dimostra quanto sia importante aumentare la capacità di importazione nel paese, specialmente di Gnl che, per sua natura, è più flessibile (qui la lista dei gasdotti in sospeso e qui quella dei terminali di rigassificazione). Inoltre, paradossalmente, la chiusura di Greenstream non rappresenta per Eni (titolare del gasdotto e della maggior parte della capacità di trasporto) soltanto un costo, ma nasconde anche un elemento di beneficio: la crisi ha messo il gruppo di San Donato in difficoltà di fronte all’obbligo di onorare tutti i contratti “take or pay” che impongono (banalizzando) di pagare anche per i volumi di gas non ritirati. Questo ha causato una (momentanea) “bolla” del gas che ha depresso i prezzi spot. Il venir meno degli 11 miliardi di metri cubi libici risolve il problema.
Per chiarire, il mio ragionamento è pressapoco questo. Nel 2010, l’Eni ha pagato circa 1,24 miliardi di euro in penali take or pay con la Russia, dove ha deciso di concentrare gli effetti del calo della domanda italiana. Facendo alcune ragionevoli assunzioni sul contenuto dei take or pay e sul prezzo medio del gas a Baumgarten, si può stimare che i volumi non ritirati da Piazzale Mattei fossero dell’ordine dei 10-12 miliardi di metri cubi: guarda caso (non è ironico) proprio quello che viaggia tramite Greenstream. Per ulteriore chiarezza, bisogna anche aggiungere che non è Eni a importare il gas libico (formalmente), in quanto tale gas viene ceduto prima della frontiera, per rispettare i tetti antitrust, a tre altre società. Grazie a Gheddafi, l’Eni probabilmente nel 2011 non dovrà pagare penali a Putin.
Detto in termini più brutali, la chiusura del Greenstream e la conseguente scarsità di metano (che va a cancellare lo scenario precedente di eccesso d’offerta) consentirà da un lato all’Eni di ritirare, e rivendere, tutti i volumi contrattualizzati, dall’altro di sostenere i prezzi sul mercato – del metano e dunque, indirettamente, dell’elettricità. Quindi, anche in questo caso, il problema è più di sicurezza che di prezzi. A differenza che col petrolio, però, il problema è di prezzi e non di sicurezza per ragioni congiunturali, e non strutturali. Staremmo tutti meglio se la nostra sicurezza energetica non dipendesse dalle sfighe economiche e se, per continuare a garantirci l’approvvigionamento, non dovessimo accendere ceri a Santa Recessione.
(tratto da Chicago Blog)