La Libia e noi: la questione del petrolio

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La Libia e noi: la questione del petrolio

28 Febbraio 2011

Negli ultimi giorni si sono lette cose molto allarmistiche sui potenziali effetti dei disordini libici sul nostro paese. Credo che si siano ampiamente sopravvalutati gli aspetti di “sicurezza energetica” per il nostro paese – che per ragioni in parte strutturali, in parte congiunturali non mi pare debba temere granché – e si siano forse sottovalutate le possibili conseguenze di ordine più generale. Su quest’ultimo aspetto rimando a Massimo Nicolazzi, che è intervenuto sul sito di Limes. Vorrei, invece, soffermarmi sul rapporto tra Italia e Libia, con una precisazione: come ho scritto su Quotidiano energia, non mi interessano gli impatti sulle aziende italiane che hanno interessi in Libia. Questi sono affari loro e dei loro azionisti (mi spiace solo di essere costretto, in quanto contribuente, a essere azionista di alcune di loro). Mi interessa, invece, riflettere sulla sicurezza energetica italiana. Lo farò in due post: in questo, dopo una premessa generale, parlerò del petrolio. Nel prossimo del gas.

Molti di voi avranno visto grafici come questo, da cui sembra di dedurre non solo che siamo il più importante partner commerciale di Tripoli, ma che l’import (circa 10 miliardi di euro nel 2009) ne costituisce la fetta principale:

Per capire di cosa stiamo parlando, però, dobbiamo anzitutto capire cosa c’è dentro quei 10 miliardi di euro. La risposta è perfino banale: 6,7 miliardi di euro di petrolio (più circa 900 milioni di prodotti raffinati) e 2,4 miliardi di euro di gas naturale. Il resto è poca cosa. E’ proprio la differenza nelle quotazioni di greggio e metano che spiega il crollo del valore dell’import rispetto al 2008 (quando la bolletta libica aveva raggiunto l’enorme cifra di 17 miliardi) e il modesto aumento nel 2010 (nei primi undici mesi dell’anno avevamo già superato i 10 miliardi).

Quindi, la didascalia di Bloomberg secondo cui l’Italia è il paese “più esposto” alla crisi del regime di Gheddafi va riformulata, sotto forma di domanda, in questo modo: assumendo che la chiusura dei rubinessi libici vada avanti per un po’, cosa succederà nel nostro paese? Vorrei, anzitutto, distinguere gli effetti specifici sull’Italia da quelli generali. L’instabilità nel paese nordafricano ha un forte effetto sulle quotazioni del petrolio (e quindi sui prezzi di benzina e gasolio mentre, a breve, avrà ripercussioni su luce e gas), che oggi stanno “prezzando” l’incertezza a circa 10 dollari al barile. Questo è spiacevole, ma è un problema di tutti. Quindi non lo considero un extracosto legato alla dipendenza del nostro paese dalla Libia. Quello che mi interessa è capire se, al di là dell’effetto-prezzi, avremo anche un effetto-volumi o, se preferite, se oltre a pagare di più l’energia, faticheremo anche a procurarcela. O, per dirla in modo ancora diverso, se, oltre all’aumento dei costi dettato dai mercati internazionali, pagheremo anche un ulteriore extracosto dovuto a una scarsità di risorse (petrolio o gas) sul nostro mercato.

Per capirlo, bisogna per un attimo dimenticare il valore monetario delle importazioni, e guardare ai volumi. Cominciamo dal petrolio. Secondo i dati dell’Unione petrolifera, nel 2009 abbiamo importato circa 20,5 milioni di tonnellate di greggio dalla Libia (il 27 per cento di tutte le importazioni), cioè l’equivalente di un po’ più di 400 mila barili al giorno. Complessivamente, la Libia produce 1,8 milioni di barili di greggio al giorno. Questo significa che, se Tripoli vale un quarto del nostro approvvigionamento petrolifero, noi valiamo un po’ più di un quinto dei suoi ricavi petroliferi. La domanda che dobbiamo porci è: questo petrolio è sostituibile oppure no?

In linea teorica, sì: infatti, come diceva il grande Morris Adelman e come ha ricordato Nicolazzi nel pezzo già linkato, “The world market, like the world ocean, is one great pool”. Ciò significa che, per il nostro approvvigionamento, nessuno ci obbliga a rivolgerci alla Libia. Possiamo estrarre i 400 mila barili che ci servono da qualche altra parte. Cioè, non esiste un problema italiano, ma un problema mondiale: non sono i 400 mila barili importati dall’Italia a rappresentare, di per sé, una sfida, ma l’intera produzione di 1,8 milioni di barili (in realtà solo circa la metà della produzione si è fermata). La domanda va, ancora una volta, riformulata: il mondo è in grado di rimpiazzare una tale quantità, pari a poco più del 2 per cento della produzione mondiale nel 2009? Fortunatamente, la risposta è positiva. Lo testimonia l’Agenzia internazionale dell’energia, che in un conciso comunicato parla di “ampia spare capacity” (cioè capacità produttiva inutilizzata) la quale, nel rapporto mensile di febbraio, veniva quantificata in 4,7 milioni di barili al giorno. Questo ci porta a due conclusioni provvisorie: 1) se l’incendio nordafricano non si diffonde ulteriormente, il mondo è tranquillamente in grado di assorbire anche la sospensione totale della produzione libica; 2) l’aumento – tutto sommato contenuto – dei prezzi petroliferi riflette più il timore che l’instabilità contagi, uno dopo l’altro, tutti i paesi Opec, che una effettiva scarsità di greggio. Detta brutalmente, ogni scossa tellurica in nordafrica apre qualche piccola crepa a Riad. I mercati temono che queste crepe si allarghino troppo.

Una terza, e meno provvisoria, conclusione è che l’Italia non correrà alcun rischio dal punto di vista della disponibilità di risorse: infatti il “bacino petrolifero” è in grado di sostenere la domanda e di rimpiazzare rapidamente la produzione libica. Pagheremo, però, un prezzo non triviale. Anzitutto perché lo stesso barile di greggio che, fino a due settimane fa, costava meno di 100 dollari, oggi cosa quasi 110. Secondariamente, lunghi anni di consuetudine con le qualità libiche di greggio hanno spinto le compagnie italiane, razionalmente, a tarare le proprie raffinerie sulle sue caratteristiche. In questo senso, la sostituzione del libico con altri greggi potrebbe non essere indolore: è lecito attendersi impatti sulla fase della raffinazione e forse perfino sulla resa delle raffinerie. Se, mediamente, per ogni unità di greggio venivano cavati un 20 per cento di benzine e un 40 per cento di gasoli (i prodotti più pregiati), tali valori potrebbero ridursi – per quanto poco. Cioè, a parità di benzina e gasolio richiesti, potremmo dover introdurre più greggio negli impianti. La buona notizia è che le raffinerie italiane sono sotto-utilizzate, quindi non ci saranno problemi a servire il mercato. La cattiva notizia è che, assumendo che il problema sia grossomodo condiviso da tutte le compagnie, anche questo extracosto si ribalterebbe sui prezzi alla pompa, specie nelle zone che gravitano attorno a raffinerie che tipicamente si rifornivano di petrolio libico (dunque, soprattutto nel Sud). Immagino che la somma di questi aumenti attuali e potenziali – che manterranno per un bel po’ la benzina sopra l’euro e mezzo al litro, forse anche 1,6 – determinerà una contrazione dei consumi rispetto allo scenario tendenziale. L’aspetto importante, però, è che si tratterà di una riduzione guidata dalla domanda, non dall’offerta; di un problema di elasticità al prezzo, non di indisponibilità fisica del combustibile.

La crisi libica ci renderà un poco più poveri ed è sensato preoccuparci per gli effetti sul nostro portafoglio. Non ci renderà meno sicuri, ed è quindi insensato buttarla in politica energetica, almeno per quel che riguarda il petrolio.

(tratto da Chicago Blog)