La lotta fratricida che poteva salvare il mondo dall’Islam radicale
02 Agosto 2011
In India, musulmani e induisti vivono in piena pace e concordia, nessuna divisione tra India e Pakistan, ma un’unica federazione, come sognava Ghandi; nessuna guerra interreligiosa nel 1948, col suo milione di morti (e neanche la scissione del Bangladesh nel 1970 con i suoi 500.000 morti); nessuna delle tre guerre tra India e Pakistan e ovviamente, Talebani mai nati in Afghanistan per farne il “retroterra strategico” della futura, immancabile nuova guerra tra Pakistan e India.
Tutto questo sarebbe reale, vero, solo se a Samigarh e a Deorai, a metà del ‘600 avesse vinto il principe moghul Dara Sikoh e non suo fratello Aurangzeb, realizzando così quella straordinaria Riforma dell’Islam che buona parte della èlite islamica indo-persiana e moghul condivideva. Uno dei tanti momenti di frattura della storia, il cui esito non era affatto scontato, che l’hanno incanalata, grazie al Fato capriccioso, verso l’esito attuale. Come se a Waterloo avesse vinto Napoleone (e poteva vincere, se solo le truppe prussiane del feldmaresciallo Leberecht von Blücher, appena sconfitte dal Bonaparte, avessero tardato solo un’ora a uscire dal il pantano in cui erano finite), o se qualcuno non avesse spostato di 50 centimetri la borsa di von Stauffenberg che conteneva la bomba che sicuramente avrebbe ucciso Hitler il 20 giugno 1944 (milioni di morti in meno, probabilmente nessuna Cortina di Ferro e neanche Hiroshima e Nagasaki). Sliding doors.
A molti indiani, e sicuramente a chiunque –pochi- ne abbia conoscenza in occidente, le battaglie di Samugarh, del 30 maggio 1658 e quella di Deorai dell’11 marzo 1659, non ricordano altro che un’ennesima guerra di successione tra principi fratelli del regno Moghul. Ma non è così. In realtà, in quei due giorni, la storia dell’India e anche quella dell’Islam mondiale cambiò radicalmente. In peggio; cambiò per caso, per opera del Fato. Il principe Dara Sikho -Dario il Magnifico, in farsi- era l’erede designato al trono Moghul dal padre, lo scià Jahan, sovrano illuminato (che fece costruire, tra l’altro, il Taji Mahl). Se Dara Sikoh avesse regnato, come tutto indicava, avrebbe applicato la sua straordinaria cultura dando profondità e spessore a quella pacificazione tra musulmani –regnanti- e induisti, iniziata da suo nonno, lo scià Akbar, e da suo padre. Se si legge la sua opera fondamentale dal titolo suggestivo “La congiunzione dei due Oceani” (edito in Italia da Adelphi), si comprende che nel subcontinente indiano si sono persi tre secoli consumati nell’odio interreligioso.
Infatti, se Dara Sikoh, avesse vinto a Samurgarth e a Deoraha, e quindi se avesse regnato sull’India moghul, avrebbe governato realizzando riforme basate sulla sua profonda convinzione che Islam e induismo, così come cristianesimo ed ebraismo, con simbologie differenti, con termini diversi, venerano in realtà un Dio unico. Usando la simbologia poetica del grande Oceano, che comprende tanti mari, Dara Sikoh –uomo di profonda cultura, mistico, mecenate delle arti e autore di molti testi- sosteneva che queste religioni sono solo facce della stessa Rivelazione, sì che Rāma e Rahmān altri non erano che il nome induista di Allah, Brāhma e Visnu erano identificati come Abramo e Mosè, così come i Veda, la Torah, i Salmi, il Vangelo e il Corano erano considerati libri rivelati assolutamente consonanti e “sorgente di verità e oceano del monoteismo”. Così scriveva il principe moghul: “Questo asceta, privo di dolore e afflizione, Muhammad Dara Sikoh, dopo avere compreso la realtà delle realtà e verificato i misteri e le sottigliezze della religione della religione vera dei Sufi, dotato di questo dono eccelso, si propose di conoscere la religione dei monoteisti indiani e dei realizzati di questa antica nazione. Intraprese allora ripetute conversazioni e colloqui con i perfetti tra questi che avevano raggiunto il grado più alto della disciplina, della percezione e della comprensione spirituali e il fine ultimo del sufismo e della ricerca di Dio; ed egli non trovò differenza alcuna, fuorché divergenze lessicali, nel loro modo di percepire e comprendere il Vero”.
La tesi del sostanziale monoteismo degli induisti, peraltro, aveva nel mondo indiano e persiano eccellenti e noti sostenitori, tra cui Abu al Fazli, che interpretavano l’evidente venerazione induista degli idoli (nettamente contrastante con l’essenza stessa dell’Islam e più volte condannata da Maometto), solo quale metodo, tecnica, per favorire la concentrazione e la meditazione sul divino; equiparavano il mantra vedico alla shahada islamica (Dio è il solo Dio e Maometto e il Profeta di Dio), così come equiparavano la città sacra agli induisti di Benares alla Mecca. Una costruzione teologica ardita, mediata dalla gnoseologia sufi, basata su una grande attrazione per il significato reale della narrazione mitologica, connotato che distingueva nettamente il mondo culturale islamico persiano e indiano da quello arabo che si rivolse, come è noto, con passione e studio alla scoperta del mondo ellenistico, senza mai però provare alcun interesse per la sua pur determinante componente mitologica.
Le conseguenze politiche nel regno moghul di questa concezione sincretica erano immense, allora, più che oggi: consolidamento della abolizione della Jiza, la “tassa di sottomissione” dei non musulmani già abolita dal nonno, lo scià Akbar, status identico alle moschee come ai templi induisti, fine di ogni discriminazione su base religiosa e infine, ma non per ultimo, piena apertura del Palazzo e della gestione del regno alle classi dirigenti induiste. Dara Sikoh, membro della confraternita sufi Qādiryyia, era a tal punto convinto che i Veda fossero pienamente parte della Rivelazione divina e quindi totalmente compatibili con il Corano e l’Islam, che ne ordinò la prima traduzione dal sanscrito in Farsi (il persiano, che sino a metà del XX° secolo sarà, con l’Urdu, lingua ufficiale del Rajiv), che fu poi tradotta da Hyacinthe Anquetil Duperron ed ebbe un enorme impatto sulla cultura europea, a partire da Schopenauer, per arrivare a Myrcaea Eliade, base di tutti gli studi sull’induismo sino ad oggi. Ma Dara Sikoh perse. Vittoria militare, casuale, in parte dovuta al tradimento –sliding doors- di Malik Jiwan, capo tribale dei Baluchi. E vinse Aurangzeb, suo fratello.
Dara Sikoh fu fatto prigioniero, esposto in catene su un elefante sporco di fango per le vie di Dehli, e la notte del 30 agosto 1658 fu decapitato come apostata e responsabile di Fitna, in esecuzione di una fatwa emessa dai massimi ulema seguaci di Aurangzeb. Si chiuse così una battaglia politica, culturale e religiosa che da decenni, dal regno di scià Akbar, coinvolgeva tutto l’Islam indiano (che si estendeva sull’area che oggi comprende Afghanistan, Pakistan, Bangladesh e India non peninsulare, con forti risonanze anche in Iran) tra la componente riformista e tollerante a cui si era abbeverato Dara Sikhoi e quella fondamentalista e salafita che fortemente sosteneva Aurangzeb. Questi, su istigazione dei seguaci del teologo Ahmad Shirindi, delle confraternite Mujaddidi e Naqshbandiya (del cui ramo turco sono oggi membri gli ex premier turchi Turgut Özal e Necmettin Erbakan, così come l’attuale premier Tayyip Erdoğan) e forte dell’appoggio di buona parte del mondo degli ulema e dei mullah, intendeva ripristinare la durezza settaria dell’avo Babur.
Questo re moghul discendente diretto di Gengis Khan, nel 1527, partendo dall’attuale Afghanistan, aveva concluso la conquista tutta l’India continentale e parte di quella peninsulare, sconfiggendo il raja induista Chittodgad instaurando il regno moghul in India. India, in cui l’Islam aveva attecchito sin dal X-XI° secolo (nel XIV° secolo era stato instaurato il sultanato di Dehli), sia pure sempre in posizione marginale rispetto alla diffusione dell’induismo. Convinto che l’induismo fosse religione politeista, quindi apostatica, Babur impose la sharia, Jiza compresa per gli induisti, distrusse molti templi indù e nel 1528 proprio sulle macerie di uno dei più sacri templi, eretto su quello che veniva considerato il luogo natale di Rāma, ad Ayodhya costruì la celebre moschea Babri.
Ferita tanto profonda e lacerante nel mondo induista che dopo quasi 5 secoli, nel 1992, questa moschea fu distrutta dagli estremisti induisti. Ne nacque un conflitto tra estremisti induisti e musulmani, su cui è naturalmente si è innestata la galassia di al Qaida, che ha fatto sinora migliaia di morti in scontri diretti e molte centinaia in attentati. Non ultima motivazione degli stessi attentati di Mumbai del 26 novembre 2008 e del luglio 2011. Anche Aurangzeb distrusse decine di templi, perseguitò e sradicò le confraternite sufi, reintrodusse la Jiza, abbatté non poche statue del Buddha (a lui si ispirarono i Talebani distruggendo nel marzo 2001 le due statue del Buddha di Bamiyan) e emanò una serie di disposizioni oscurantiste, incluso il divieto della musica e della danza, assolutamente organiche a quelle che caratterizzeranno il governo afghano dei Talebani. Assonanza per nulla meccanica e casuale, perché se è vero che gli storici sono divisi circa il peso che ebbe la legislazione repressiva di Aurangzeb nell’eccitare la rivolta dei Marabutti e dei musulmani, che alla sua morte (1707) portò rapidamente alla decadenza del regno Moghul in India (aprendo le porte alla penetrazione inglese), è indubbio il consistente lascito del suo quarantennale –e feroce- regno all’estremismo islamico che oggi furoreggia in Pakistan, Afghanistan ed India.
Così come è indubbio che la Riforma islamica di cui Dara Sikoh fu il più potente esponente (anticipando di 150 anni le timide riforme –Tanzimat- del ben più sterile Islam ottomano), non era un utopia intellettuale, ma una componente ben radicata in India. Infatti, due secoli dopo la sua morte nella seconda metà del XIX°, Sayyed Ahmed Khan -probabilmente affiliato alla confraternita Qādiryyia– stimolato dal confronto con la potenza coloniale inglese ed espressione delle forti tensioni riformiste che attraversavano l’Islam indiano, fondò il Muhammedan Anglo-Oriental College, che poi divenne la Aligarth Muslim University, che formò nel nome della tolleranza (e dell’averroismo) quella èlite musulmana che rifuggì dal fondamentalismo e che tuttora è parte dirigente dell’India democratica. All’opposto, testimonianza e prova inconfutabile del segno profondo nella storia indiana lasciato dal regno “talebano” ante literam di Aurangzeb, è l’opera di Muhammad Iqbal, morto nel 1938, teologo fondamentalista e politico che ebbe un ruolo unico e centrale nella organizzazione e nella elaborazione della basi dottrinali che portarono nel 1948 alla separazione dei musulmani e degli induisti del Rajiv indiano, con la fondazione artificiosa del Pakistan.
Iqbal, nel suo testo The Emperor Alamgir and the Tiger, condanna apertamente e duramente tutta l’opera di Dara Sikoh accusato di avere piantato in India il seme dell’eresia ed esalta l’opera restauratrice del vero Islam di Aurangzeb: “Ultima freccia nella nostra faretra, nella guerra tra Fede e miscredenza”. Muhammad Iqbal è stato il principale ispiratore dell’azione di Abu Ala al Mawdudi, il “Khomeini sunnita” che a sua volta promosse e diresse con il suo partito Jamaa e Islami la riforma fondamentalista del Pakistan operata Negli anni ’80 dal dittatore Zia Hul Aqh (Blasphemy Law inclusa). Non solo, a Muhammad Iqbal si rifanno tutti i gruppi estremisti e terroristi che operano oggi in Af-Pak (Afghanistan e Pakistan), con la copertura di quei vertici militari pakistani, annidati soprattutto nell’Isi (iservizi segreti di Islalamabad) che in Iqbal venerano ancora oggi una sorta di “padre della patria” ante litteram (Lashkar e Taiba, Muhjaeddin indiani e Talebani del Pakistan, ). Non di teologia dunque si parla, guardando alla figura sfortunata e alle opere di Dara Sikoh, non di elucubrazioni teoriche e mistiche, ma di un tornante decisivo nella storia politica dell’Islam.
Guardare alla avventura religiosa e politica di Dara Sikoh è indispensabile per recuperare quantomeno il senso dello spessore plurisecolare, le intersezioni tra nazionalismo e guerre di religione, il dibattito interno al mondo musulmano, che occupano le cronache di oggi, da Kabul a Mumbai, passando per Peshawar, Islamabad e Karachi. Ma a questo, purtroppo, non si guarda. Come se l’estremismo e il terrorismo islamico fosse una escrescenza impuria postcoloniale e non il portato di una storia plurisecolare. Come se la vicenda del fondamentalismo islamico fosse solo il prodotto del contesto ottomano e arabo e non anche della storia complessa dell’Islam in Perisa e India, negli ultimi quattro secoli ben più fertile sul piano culturale. Per questo, anche per questo, l’occidente è in affanno in quell’Afghanistan da qui il re moghul Barbur, per rinverdire le imprese dell’avo Gengis Khan, partì, cinque secoli fa, alla conquista dell’India.
(Tratto dal Foglio)