La lunga marcia del sindacalismo Usa
04 Giugno 2007
L’accordo sul commercio, presentato il 10 maggio 2007, raggiunto grazie ad un consenso bipartisan tra l’Amministrazione Bush e il Congresso Americano a maggioranza democratica considera l’inserimento nei trattati commerciali di questioni extra commerciali, quali ad esempio la tutela dei diritti dei lavoratori, come una clausola fondamentale. Essa è stata votata praticamente a larga maggioranza, coinvolgendo tanto la Speaker democratica: Nancy Pelosi, quanto Hank Paulson, “Treasury Secretary” e Susan Schwab, rappresentante USA per il commercio. Il fatto che un provvedimento del genere sia stato votato tanto dai rappresentanti democratici quanto da quelli repubblicani è stato salutato come un successo della politica. Il compromesso raggiunto dal Congresso americano prevede una più rigida protezione dei diritti dei lavoratori in quei Paesi con i quali gli USA mantengono rapporti commerciali.
È stato l’economista di origine indiana Jagdish Bhagwati a raffreddare un certo entusiasmo, affermando che lo spirito bipartisan non garantirebbe necessariamente una scelta politicamente virtuosa. La tesi che avrebbe condotto all’esito bipartisan sarebbe la convinzione che un ampio consenso interno sulle politiche commerciali può rappresentare una condizione sufficiente per ulteriori politiche di liberalizzazione commerciale. Ora, è indubbio che i problemi non sorgono fin quando i partner commerciali condividono le stesse finalità, ma in tal caso la ricerca del consenso su questioni politiche ed extra commerciali apparirebbe oltremodo inutile. I problemi sorgono quando i partner commerciali degli Stati Uniti o di qualsiasi altro Paese ad economia avanzata sono Paesi in via di sviluppo, che solitamente non prestano attenzione o si oppongono all’inserimento nei trattati, negli accordi e nelle istituzioni commerciali di una rigida legislazione sulle garanzie del lavoro. È evidente che il problema riguarda relativamente gli accordi bilaterali tra grandi e piccoli Paesi, dal momento che questi ultimi hanno tutto l’interesse ad assecondare eventuali richieste da parte dei primi.
Di recente l’India ha reiterato la sua opposizione rispetto all’inserimento nella proposta di accordo commerciale con l’Unione Europea di clausole non commerciali, costringendo l’Unione Europea ad una imbarazzante marcia indietro. Lo stesso è accaduto nel caso del Free Trade Agreement delle Americhe, per la ratifica del quale il Brasile si è opposto di inserire clausole relative agli standard di sicurezza sul lavoro ed altre questioni non direttamente commerciali. La reazione degli Stati Uniti è stata quella di condannare l’approccio dei Paesi in via di sviluppo, invitandoli ad accettare almeno alcune clausole extra commerciali.
Il dibattito negli Stati Uniti è particolarmente sentito e non mancano gli scambi di accuse tra democratici e repubblicani. I primi ritengono che i repubblicani e i governi dei paesi emergenti agiscano in modo politicamente e moralmente biasimevole, dal momento che sembrerebbero dare voce ai sostenitori dello sfruttamento del lavoro. Charles Rangel, presidente democratico della House Ways and Means Committee, ha accusato i repubblicani di governare la politica commerciale statunitense mossi da interessi corporativistici. Diverse sarebbero la prospettiva politica e la strategia commerciale perseguite dal partito democratico, maggiormente attento alle istanze di giustizia delle popolazioni dei Paesi in via di sviluppo. La realtà, tuttavia, al di là delle comprensibile e legittime schermaglie politiche, sarebbe un po’ più complessa, basti pensare che la maggior parte degli economisti e degli analisti che si riconoscono nel partito democratico si oppongono all’inserimento di clausole non commerciali all’interno dei trattati commerciali. L’opinione sarebbe condivisa anche da un nutrito numero di esponenti politici del partito democratico statunitense e dalle popolazioni dei Paesi in via di sviluppo.
La tesi di Bhagwati è che la cura e la forza con le quali una parte della politica americana si batterebbe per il rispetto di standard civili nella legislazione sul lavoro non dipenderebbero dall’“altruismo” e dal sentimento di “empatia” dell’odierna classe politica statunitense, bensì dal “timore” e dall’“egoismo”. Coloro che si starebbero battendo nel Congresso, opponendosi a piattaforme programmatiche commerciali con i Paesi in via di sviluppo, usano l’argomento dell’interesse nazionale, affermando che la competizione con le imprese dei Paesi in via di sviluppo rappresenterebbe un pericolo per le imprese, per i lavoratori e per il ceto medio statunitensi.
Bhagwati ritiene che tale timore sia ingiustificato. Sono molti gli studi che evidenzierebbero lo scarso impatto delle politiche commerciali tra USA e Paesi in via di sviluppo sul livello dei salari americani. Uno studio di Paul Krugman mostrerebbe come, sebbene siano aumentate le importazioni da parte degli USA di beni provenienti da Paesi in via di sviluppo, ciò non avrebbe prodotto effetti significativi sui salari. Dunque, l’accordo bipartisan tra Congresso ed Amministrazione Bush rappresenterebbe una sorta di cavallo di Troia, attraverso il quale il movimento sindacale statunitense starebbe tentando di modificare la legislazione sul lavoro negli USA. Il vero obiettivo che i sindacati si starebbero proponendo, secondo Bhagwati, sarebbe quello di condizionare a tal punto gli scambi commerciali globali, inserendosi progressivamente e con sempre maggior influenza nelle trattative tra i governi, fino a vincolare la legislazione interna statunitense: questo sarebbe l’obiettivo finale. Dapprima le organizzazioni sindacali sarebbero riuscite a condizionare il documento allegato all’accordo che va sotto il nome di NAFTA, in seguito il testo del Free Trade Agreement tra Giordania e Marocco. In tutti questi casi i sindacati hanno richiesto un irrigidimento degli standard per quanto concerne la legislazione sul lavoro. Bhagwati ritiene che tutto procederebbe nella direzione di giungere ad una riforma del mercato del lavoro anche negli Stati Uniti, i quali – a questo punto – perderebbero ogni credibilità internazionale qualora esigessero dai Paesi in via di sviluppo quanto, paradossalmente, non sono in grado di garantire al loro interno.