La maternità nell’era delle nuove tecnologie

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La maternità nell’era delle nuove tecnologie

06 Novembre 2011

Ripubblichamo l’intervento di Eugenia Roccella, Sottosegretario al Ministero della Salute, riguardante la procreazione assistita, in occasione della Giornata internazionale Pio Manzù (23-10-2011).

La relazione su cui si fonda l’esperienza umana, e che accomuna tutti gli uomini è la nascita. L’essere umano nasce in una condizione di assoluta simbiosi e dipendenza, nutrito e protetto dal corpo di un’altra persona, e sopravvive solo grazie all’accoglienza amorosa. Una tesi che circolava molto nel femminismo, alla fine degli anni Settanta, era che l’unica esperienza unificatrice, condivisa da tutti, fosse appunto l’essere “nato di donna” (Adrienne Rich). In questa espressione biblica è racchiuso il senso del limite e della creaturalità, l’impossibilità di avere una totale sovranità su noi stessi, la necessità, per la propria sopravvivenza, del rapporto con l’altro. E insieme, nell’essere “nati di donna” c’è il riconoscimento dell’esperienza che ci plasma fin dall’inizio della vita, quella dell’amore come dono.

L’unicità della condizione umana è legata al rapporto inscindibile tra biologia e relazione. Le due cose sono strettamente intrecciate: se si separa la biologia dalla relazione affettiva, si ottiene la perdita di senso dell’esperienza umana. Il rischio di questa separazione, impensabile fino a pochi decenni fa, ma oggi resa possibile dalle nuove opzioni tecno scientifiche, è doppio: da una parte si schiaccia l’umano sul biologico, facendo del corpo e della procreazione qualcosa di totalmente manipolabile. Dall’altra si destrutturano i rapporti di genitorialità e parentela che sono a fondamento della convivenza e di qualunque cultura umana. Per fare un esempio chiaro, basta pensare alla maternità: tutti i mammiferi femmina partoriscono in modo simile alle donne, ma non restano legate ai figli per sempre, e tanto meno lo fanno i maschi. Nel mondo animale la paternità è un evento inconsapevole, labile, pressoché inesistente. Per gli esseri umani, invece, la relazione materna è il modello di tutte le relazioni umane proiettate nel “per sempre”, e la paternità si assimila a quel modello. E’ perché tutti siamo figli, perché tutti abbiamo vissuto quella relazione simbiotica infantile, perché ne abbiamo nostalgia profonda, che siamo capaci di immaginare e costruire il matrimonio e la famiglia.

Il termine matrimonio ha una radice femminile, “mater”, perché è la maternità il nucleo primario intorno a cui si strutturano le relazioni di parentela, e si forma la comunità. L’amore materno è, ancora oggi, forse l’ultimo legame d’amore davvero indissolubile, in un contesto di rapporti che si perdono, si slabbrano, sono precari e provvisori. Toccare il rapporto madre-figlio vuol dire davvero minacciare il nucleo profondo di formazione della civiltà umana, perchè è attraverso questo rapporto che si forma la famiglia, poi le reti di parentela e il gruppo sociale. Sgretolare i significati del materno vuol dire disgregare le radici della convivenza umana, oltre che il senso dell’amore e dell’affidamento reciproco.

Il problema oggi è il conflitto di potere su chi genera la vita, e  di conseguenza chi stabilisce, e come, le frontiere e le basi dell’esperienza umana.Il sapere scientifico ha sempre avuto ricadute pratiche, tecnologiche, ma oggi la tecnica sta assumendo il ruolo principale nella ricerca scientifica, e diventa una forma di manipolazione che non si completa sempre con la conoscenza profonda dei processi su cui interviene. Il termine “tecnoscienza” indica una scienza fondata ormai sulla tecnica, più che sull’acquisizione della conoscenza. L’irruzione della tecnoscienza nella procreazione sta modificando in modo radicale le relazioni tra l’uomo e la donna, e tra questi e i figli. Tutti noi siamo abituati a pensare alla relazione materna e paterna come a qualcosa profondamente legato agli istinti, al corpo, ma le cose non stanno più così.

In questo ambito, tutto è cambiato da quando è nata la prima bambina concepita fuori dal corpo di una donna. Oggi è possibile che la madre che ti ha partorito non sia quella genetica (nei soli Stati Uniti il 12 per cento delle fecondazioni in vitro avviene con ovociti donati), e sono sempre più numerose le donne che fanno figli oltre i quarant’anni. Mentre l’82 per cento dei figli nati da donatore vorrebbe conoscere il  padre biologico, molte nuove famiglie sono disegnate fin dall’inizio con un solo genitore. Oppure, invece,  con quattro, di cui uno o due “sociali”, cioè legati al bambino giuridicamente, e gli altri biologici. Di quelli biologici forse uno si occuperà del figlio e gli altri spariranno nell’anonimato; ma è possibile anche nascere con il patrimonio genetico di due madri, sfatando la vecchia sicurezza circa il fatto che di mamma ce ne sia una sola. Con la tecnica Icsi gli spermatozoi meno vitali possono essere iniettati nell’ovocita e fecondarlo, anche se i maschi nati da quella tecnica sono destinati a essere sterili.

Stiamo assistendo a un importante “esperimento sociale mediato dalla tecnologia”, scrive Liza Mundy, autrice di un libro (Tutto è concepibile, come la procreazione assistita sta cambiando le donne, gli uomini e il mondo) che prova a raccontare questo esperimento, e raccoglie storie vere riportate dai protagonisti. Come quella di due gay, Eric e Douglas, e delle loro due figlie gemelle. Prima c’è stata la scelta della donatrice di ovociti, per metà fecondati con il seme di Eric e per metà con quello di Douglas (si chiama “equità riproduttiva”). Poi l’incontro con la donna, già madre di quattro figli, che presterà l’utero (lo perderà per un’emorragia durante il parto delle gemelle), poi ancora la decisione sugli embrioni da trasferire. “Abbiamo sempre voluto gemelli”, confessano i due, e il sogno si avvera: le bimbe sono gemelle, con due padri diversi e senza madre. O forse con due: la donatrice anonima di ovuli, e la donna che le ha partorite, con cui si è consolidata un’amicizia.

E’ quella che viene definita “riproduzione collaborativa”: il senso usuale di parole come padre e madre non esiste più. Le pagine del libro trasudano di domande drammatiche, per esempio quelle che riguardano la ricerca affannosa della propria origine. “Essere voluti, sfortunatamente, non è sufficiente”, si legge su un sito dove figli nati da donatori cercano ostinatamente chi li ha generati. Le famiglie in cui la fecondazione è avvenuta con donazione di gameti spesso formano associazioni che riuniscono i discendenti dello stesso donatore, come il “ gruppo 1.476”, che comprende i nati dal seme donato a una banca del seme dall’anonimo numero 1.476. Ci sono,poi, naturalmente, gli embrioni congelati: in America sono mezzo milione, con organizzazioni che si occupano del loro inventario, e compagnie commerciali per lo stoccaggio di embrioni congelati. Non si possono, come chiedono alcuni, “donare alla ricerca”, perché, aldilà dei problemi etici, semplicemente la ricerca non li vuole.

Tutto questo insomma è ormai vita vissuta, esperienza che rischia di modificare il nostro senso comune, i sentimenti profondi che finora sono stati condivisi da tutte le culture umane. Questo enorme cambiamento -una rivoluzione davvero epocale- che sta investendo le esperienze e le evidenze umane ha una data precisa, la data di un evento simbolico: la nascita di Louise Brown, la prima bimba nata da una provetta, nel 1978. La tecno maternità che si sta sviluppando rende inadeguato anche il lessico per descrivere i nuovi rapporti di parentela fra le persone coinvolte. Siamo alle famiglie indefinite, con legami per cui non esistono termini corretti, e per le quali è impossibile ricostruire anche ascendenza e discendenze: non  sono più possibili gli alberi genealogici. Come definire per esempio un bambino registrato come figlio di una coppia lesbica che si è scambiata gli ovociti, fertilizzati da “donatori” sconosciuti? Oppure un bambino nato dall’ovocita di una donna, modificato con il citoplasma di una seconda, fertilizzato da spermatozoi di uno sconosciuto, impiantato nell’utero di una terza donna e che ne chiama mamma una quarta?

La tendenza all’abolizione dell’anonimato dei donatori di gameti nelle legislazioni è dovuta al crescente imporsi della domanda sulle proprie origini da parte dei nati da fecondazione eterologa. Una richiesta che molto spesso non equivale al rifiuto della famiglia in cui si è cresciuti, verso la quale, generalmente, si continuano a nutrire sentimenti di amore e riconoscenza. Ma l’esigenza profonda di sapere da dove si viene, quella stessa domanda che è a fondamento della filosofia, dimostra in questo caso tutta la sua ineluttabilità.Lo dimostra il fatto che la ricerca dei nati da eterologa non si ferma al genitore biologico rimasto nell’ombra, ma si estende anche a quella di eventuali fratelli e sorelle sconosciuti: si vuole conoscere la propria origine per comprendere meglio se stessi, la propria identità, e per questo si sente l’urgenza di incontrare anche coloro con cui si condivide tale provenienza.

Per conoscere se stessi non è sufficiente guardare la propria immagine riflessa in uno specchio. Il nostro volto, i nostri tratti, le nostre emozioni, i desideri profondi, le attitudini e le capacità, pregi e difetti: tutto ciò che costituisce la nostra persona sarà più comprensibile a noi stessi se ci rimanderà ad altre fisionomie conosciute ed a storie raccontate in cui la nostra affonda le radici, e dalle quali e insieme alle quali prende forma.Lo specchio ideale nel quale ci osserviamo deve poterci restituire un’immagine che per essere completa non può coincidere solo con la nostra persona, ma deve comprendere la comunità cui apparteniamo, che in primis non può che essere quella che ci ha generato: i nostri genitori, la nostra famiglia, la trama di rapporti che ci ha preceduto e nella quale siamo venuti al mondo. La pretesa di un’assoluta autodeterminazione rivela, in questo caso, tutta la sua fragilità.

Sono le stesse biobanche in cui sono conservati i gameti a sapere bene quanto sia impellente ed inevitabile la domanda sulle proprie origini: ai fini della riuscita dell’eterologa, infatti, sarebbe sufficiente che i gameti fossero accompagnati da una certificazione medica completa sulla loro qualità, sull’assenza di malattie trasmissibili, sia infettive che di natura genetica, e sul loro stato di conservazione.Ma nessuna biobanca si limita a fornire solamente questo tipo di dati, che vengono invece sempre accompagnati da informazioni sull’aspetto fisico di chi ha ceduto i gameti: il colore di occhi e capelli, l’etnia di provenienza, il grado di istruzione e spesso anche la religione. A volte si mettono a disposizione le foto del donatore da bambino, se ne segnalano le aspirazioni.

I cataloghi sui quali si possono scegliere i donatori, facilmente consultabili in rete, sono la dimostrazione inequivocabile che alle coppie che si rivolgono alla fecondazione eterologa non basta una fiala anonima di liquido seminale, o un ovocita di provenienza ignota: si cerca piuttosto una persona con caratteristiche precise, rassicuranti, probabilmente quelle che si desiderano per il proprio figlio, quando non quelle che, inconfessabilmente, ciascuno avrebbe voluto avere, o avrebbe desiderato per il proprio compagno. Non sono rare, poi, le coppie che cercano donatori somiglianti a se stessi perché il loro eventuale figlio non si discosti troppo dalle caratteristiche somatiche della famiglia legale, e non sia troppo evidente, un domani, una sua estraneità fisica.

Chi affronta una fecondazione eterologa, quindi, lo fa proprio per la grande importanza che dà ai legami di sangue parentale: si vuole un figlio che fisicamente sia legato alla madre, che si sviluppi nella pancia della sua madre legale e che ne sia partorito, con almeno il patrimonio genetico di uno dei due della coppia, e magari che assomigli il più,possibile ai genitori legali.L’anonimato di uno dei due genitori biologici imposto ai nati da eterologa è quindi il paradosso con il quale chi vuole a tutti i costi un figlio legato a sé geneticamente o almeno fisicamente – nel caso in cui sia i gameti femminili che quelli maschili siano estranei alla coppia – pretende invece che il nato non dia alcuna importanza a tale tipo di legame, e glielo impone pianificando deliberatamente quello che potremmo definire un “vuoto genealogico”.

Ci sono poi le nuove forme di sfruttamento delle donne, e anche le nuove forme di razzismo legate a questi scenari: i flussi del cosiddetto turismo procreativo seguono due criteri: la deregulation e il minor costo, cioè i paesi con meno garanzie legislative e quelli in cui le coppie spendono meno.  Pensiamo a situazioni come quelle dei contratti per gli uteri in affitto, o la cosiddetta “donazione” di ovociti, che non è quasi mai donazione, e quasi sempre compravendita da giovani, spesso giovanissime, donne, in genere provenienti da da paesi poveri. Ma gli ovociti con le quotazioni più elevate appartengono a donne bianche, con caratteristiche genetiche precise, e in questo campo dunque si configurano nuove forme di discriminazione. Ricordo che una sentenza italiana che riguarda l’adozione ha dichiarato inammissibile la scelta del bambino da adottare in base al colore della pelle o ad altri criteri selettivi.

C’è stata su tutto questo una riflessione femminile? Sì, c’è stata naturalmente, e il pensiero delle donne appare diviso tra le tecno entusiaste e le tecno scettiche.Io vorrei sottolineare la problematicità dei nuovi scenari, e sollecitare un’attenzione non solo da parte delle studiose, ma anche da parte di chi governa, perché spesso le nuove scelte in campo di procreazione assistita vengono considerate solo sul piano sanitario, o su quello del desiderio del figlio, mentre il bilancio è fatto di ombre e luci, di nuove opportunità  per le donne, ma anche di ricadute sociali complessive che vanno considerate, e di rischi non sempre pienamente valutati.

Tratto dal sito eugeniaroccella.it