La Merkel, le due velocità e quelle omissioni da chiarire
07 Febbraio 2017
Sbagliare è umano, perseverare è diabolico. Indipendentemente da ciò che si pensa sull’Europa e sulla permanenza nella zona Euro, ormai solo pochi fideisti si rifiutano di ammettere che le condizioni capestro che l’Italia accettò per entrare nel club della moneta unica rappresentano una delle cause delle odierne difficoltà e della correlata disaffezione.
Quell’esperienza dovrebbe averci insegnato che quando s’immaginano nuovi scenari per l’Europa è bene intendersi su presupposti e metodo. L’avvertenza assume forza e concretezza di fronte alla proposta lanciata dal cancelliere Angela Merkel sulla cosiddetta Europa a doppia velocità. Essa, infatti, può voler dire tutto e il contrario di tutto. Certamente giunge a sancire che l’Europa così come è oggi non ha più senso e ancor meno ne avrà dopo l’uscita della Gran Bretagna e la nuova politica estera di Trump.
Non casualmente, quest’Europa non va bene agli europeisti e neppure agli euro-scettici: quando il dibattito fuoriesce dall’ambito dell’ideologia, le loro argomentazioni critiche si sfiorano; in qualche caso si sovrappongono. Oltre la presa d’atto delle brutture dell’Europa odierna, però, rispetto alla proposta della Cancelliera restano molti problemi da chiarire, che vanno al di là del fatto – certamente rilevante – che l’Italia rientri o meno nel gruppo di testa.
Se si vuole tornare a immaginare l’Europa come una comunità di destino legata all’idea di una cittadinanza comune (se non proprio di un condiviso patriottismo), urge innanzitutto una riflessione sul metodo. Negli anni della guerra fredda, oltre che da una esigenza strategica condivisa, l’Europa è stata sostenuta dall’idea che gli Stati devolvessero, di volta in volta, il minimo di sovranità nazionale necessaria alla risoluzione di una problematica comune che non avrebbe trovato risposta restando nei confini delle rispettive nazioni. La restante sovranità restava gelosamente custodita dai singoli Stati.
La costruzione comunitaria era dunque immaginata come un processo di devoluzioni successive, giustificate agli occhi e ai cuori dei cittadini europei da un evidente interesse e da un comune sentire. Negli ultimi decenni, nei fatti, quel metodo si è invertito. Oggi l’impressione è che l’Europa lasci agli Stati quel che è residuo e, soprattutto, che le quote di sovranità nazionale non siano devolute a una entità più ampia che risponda a una più ampia sovranità, ma che – nel processo di transizione – finiscano con l’evaporare, andando a determinare un potere sostanzialmente privo di controllo democratico.
L’Europa a due velocità ha un senso se significa un’inversione di rotta e un ritorno al metodo antico. Fin qui, però, nessuno ne ha fatto cenno. Quel metodo antico, per essere chiari, è incompatibile con una definizione di ambiti comunitari costruiti a “geometria variabile”, per cui a seconda dei problemi si individuano i Paesi che hanno interesse a partecipare. Così facendo non si costruisce nessuna comunità di destino. Si sancisce soltanto un’Europa a egemonia tedesca, nella quale la Germania, a seconda dei casi e delle problematiche, sceglie i suoi partner privilegiati.
Ancor meno avrebbe senso per l’Italia se all’egemonia tedesca si aggiungesse la sub-egemonia francese, attraverso la resurrezione di un asse franco-tedesco riveduto e corretto. Negli anni della guerra fredda quell’asse è stato il baricentro della costruzione comunitaria e si reggeva su un essenziale e oggettivo equilibrio: la prevalenza francese in ambito strategico-militare, la supremazia tedesca in ambito economico.
Oggi, nelle mutate condizioni del mondo, quell’equilibrio è stato spazzato via. Se non si mettono le cose bene in chiaro, una rinnovata intesa franco-tedesca potrebbe cementarsi sull’individuazione di ambiti d’influenza non concorrenti nei quali far prevalere i rispettivi interessi nazionali. L’area comunitaria verrebbe in tal modo progressivamente colonizzata dagli interessi nazionalisti dei tedeschi e dei francesi. E, tra l’altro, qualcuno Oltralpe (e non solo) potrebbe guardare con interesse al “nazionalismo europeista” come proposta da contrapporre alle crescenti pulsioni nazionaliste anti-europee.
Le ragioni per le quali alla Germania e alla Francia conviene non essere limpide su questi nodi, e ridurre per ora “l’Europa a due velocità” a una mera formuletta, sono evidenti e, guardando con i loro occhi, persino comprensibili: in uno scenario così incerto, perché legarsi le mani e non lasciarsi aperte diverse strade?
Molto meno facile da comprendere, invece, è il motivo per cui l’Italia dovrebbe assecondare queste spinte. Torna alla mente l’ultima lettera che Alcide De Gasperi, ormai alla fine dei suoi giorni, spedì dalla Valsugana ad Amintore Fanfani, allora segretario della Dc. Di fronte all’ipotesi minimalistica di un esercito europeo a scartamento ridotto, egli comprendeva perfettamente sia le ragioni di Adenauer sia quelle di Mendes-France, e tuttavia non poteva fare a meno di domandarsi: “Ma la povera Italia che ci sta a fare? (…) come sperare con questi sentimenti, né ora né mai, di fare l’Europa? E allora, torno a chiedere, che ci stiamo a fare noi?”. La domanda valeva ieri, vale oggi ancor di più. (Tratto da Huffington Post)