La miopia della classe dirigente si riflette sul mondo dei trasporti

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La miopia della classe dirigente si riflette sul mondo dei trasporti

05 Dicembre 2007

L’Italia,
si sa, è Paese di contraddizioni, alle quali siamo abituati e che forse mai cesseranno,
un po’ per ragioni storiche, un po’ a causa di quella cultura restia a recepire
il cambiamento. Ne è un esempio il complesso mondo dei trasporti, cresciuto,
dall’Unità d’Italia fino alla seconda guerra mondiale, sotto l’ala della
ferrovia e sviluppatosi a partire dagli anni ‘50 grazie all’espansione
dell’industria automobilistica, consacrando l’automobile a simbolo del boom economico e della libertà di
movimento.

L’Italia e gli italiani sono cresciuti sulle quattro ruote,
ammaliati dall’anarchia del mezzo di spostamento anti-sociale per eccellenza.

I
governi passati non hanno fatto altro che assecondare questa tendenza: nel 1950
circa 16.000 km
di rete ferroviaria e 470 km
di autostrade; nel 2004, secondo i dati della Commissione Europea, i km di rete
ferroviaria erano rimasti pressoché invariati mentre le autostrade contavano
ben 6.532 km
di infrastruttura.

Certo,
l’industria dell’auto si andava sviluppando proprio nell’immediato dopoguerra,
ma alcuni recenti dati tratti dal Conto Nazionale dei Trasporti e delle
Infrastrutture portano a concludere che i trasporti e la collettività italiana oggi
pagano fortemente l’enorme crescita del trasporto stradale, in termini di inquinamento
(120.5 migliaia di tonnellate di anidride carbonica dovute al traffico stradale
contro lo 0,3 della ferrovia), incidentalità (5.426 morti e 313.727 feriti
nelle strade) e lo sbilanciamento quasi totale a favore della gomma (92% delle
merci su strada, 65% degli spostamenti delle persone coperti  con auto).

Esiste poi l’esperienza diretta di ognuno,
tra i rischi legati alla eccessiva presenza di TIR, i lavori che
affliggono perennemente le nostre strade o le lunghe code che ogni mattina si
addensano all’ingresso dei grandi centri urbani.

È quindi opportuno chiedersi,
anche alla luce del recente e preoccupante atteggiamento del Governo, se l’assetto
attuale del trasporto terrestre abbia ancora senso così com’è, o se invece la
classe dirigente, nel tentativo di rilanciare un Paese in declino, non debba
anche rimettere in sesto un malato cronico come il comparto dei trasporti, con
un rapporto tra km di autostrada e km di ferrovia di circa il 40% contro il 35%
di Germania e Francia e il 22% per la Gran Bretagna.

Siamo
infatti di fronte ad un paradosso che, anche 
alla luce delle dinamiche internazionali legate agli equilibri politici
ed energetici, si fa fatica ad accettare a maggior ragione in quanto appariva già
evidente con il famoso Piano generale dei trasporti di metà anni ‘80, la
necessità di definire linee strategiche di lungo periodo con l’obiettivo primo
di riequilibrare il settore verso una struttura più efficiente e a minor
impatto ambientale.

La
politica dei trasporti infatti, per quanto sconosciuta ai molti se non per il
fatto che ogni giorno dobbiamo muoverci e quindi ne verifichiamo costantemente gli
effetti, rappresenta un asse cruciale per il funzionamento dei sistemi sociali e
produttivi.

Dalla bontà della stessa, e dall’efficienza del settore, dipendono sia
i costi di prodotto che in generale la qualità della vita di ogni singolo contribuente.

Più alta è infatti la competizione nei mercato internazionali, più è importante
abbassare i costi per mantenere un certo livello di profitto; più si riducono i
tempi di percorrenza dei grandi centri urbani attraverso una rete integrata
treno-metropolitana-bus-auto, maggiore è la sua attrazione come polo; più si
dipende dall’estero in termini energetici, maggiore è la necessità di abbattere
i costi per unità di traffico.

Non è possibile sperare che certe condizioni si
realizzino spontaneamente, a meno che gli attori economici non sappiano agire
in modo ottimale. Stupisce quindi che in Italia non solo manchi una vera politica
di settore, ma si continui, a dispetto delle esigue discussioni, a considerare
il “trasporto” più come un vincolo che come un’opportunità.

In
quasi tutte le economie, è più o meno tacitamente accettata la superiorità del
mezzo stradale, ma è anche vero che le attuali dinamiche internazionali sul
fronte energetico stanno spingendo verso forme di riequilibrio tra modalità diverse,
sia in una logica puramente economica, che per forza di cose in relazione ai
cambiamenti climatici.

La recente inaugurazione del collegamento ferroviario
tra Paragi e Londra dovrebbe far riflettere chi di politica dei trasporti si
occupa quotidianamente, soprattutto nell’ottica di favorire e rendere chiaro
che sono possibili trasporti più vantaggiosi della strada e che non è più
possibile favorire la sola industria dell’auto.

Un paese come l’Italia, che lo
si ammetta o no e senza voler fare allarmismi, è in crisi energetica conclamata
poiché dipende fortemente dall’estero ed è obbligato non solo a risolvere il
problema dell’approvvigionamento di energia, ma deve accompagnare la sua
politica energetica ad un corretto mix trasportistico per ridurne al minimo gli
impatti socio-ambientali. Siamo, da questo punto di vista, in forte ritardo e
abbiamo bisogno di scelte, in campo economico, che funzionino da volano per lo sviluppo
di medio lungo periodo. Questa possibilità dipende dalla lungimiranza del
nostro legislatore, che deve abbandonare il vizio atavico di favorire solo determinati
centri di interesse economico.

Non esiste la superiorità assoluta di un mezzo
rispetto all’altro, deve esistere invece complementarietà, la quale va
realizzata anche a costo di lenti e faticosi processi di riconversione.

Infatti,
l’eccessiva presenza dell’industria automobilistica nei trasporti italiani è
stata anche favorita da una serie di scelte che hanno reso incapace la ferrovia
di competere in mercati potenzialmente contendibili.

Fino ad ora, la politica
di settore è stata rivolta a rafforzare prima, e risollevare poi, il settore
dell’auto, senza tener conto degli effetti dannosi che si sarebbero verificati
nel medio-lungo periodo, abbandonando il monopolista ferroviario all’interno di
un rapporto, quello tra azionista pubblico e regolatore, destinato a deprimere
il servizio e a scoraggiare qualsiasi iniziativa economicamente vantaggiosa.

Allora
perché, oggi, alcuni grandi soggetti privati sembrano mostrare appetito per un business per  lungo tempo abbandonato e considerato come
trasporto dei poveri? Serviva forse lo sforzo della collettività per realizzare
le infrastrutture su cui far poi viaggiare i clienti a prezzi di mercato?

Insomma, pur potendo accettare che le imprese monopoliste non sono efficienti,
bisogna fare attenzione a farsi trascinare da mode che si giustificano più
nella ricerca di facili profitti, magari con il contributo statale. L’esperienza
dei privati nel trasporto ferroviario è agli albori della ferrovia italiana ed
è raccontata da numerosi storici ed economisti anche attraverso piacevoli
letture

Non solo le infrastrutture furono realizzate senza riguardo ad un
disegno globale, ma quando il privato si rese conto degli enormi squilibri
finanziari a cui andava incontro nella gestione di imprese con altissimi costi
fissi, abbandonò il progetto consegnandolo ad uno Stato già di per se in grave
crisi di liquidità.

Non vi è dubbio che la concorrenza fa bene ai sistemi
sociali: facendo emergere i talenti produce indirettamente effetti positivi
anche per i meni “capaci”, credo tuttavia che sia comunque un atteggiamento
maturo tentare di comprendere le dinamiche e gli ordini di grandezza delle
variabili coinvolte, ricordando che negli Stati Uniti le ferrovie private sono
largamente sussidiate, che in Francia, notoriamente riottosa ad aprire i
proprio monopoli, le ferrovie sono un asset
strategico e che in Inghilterra i processi di liberalizzazione hanno
condotto recentemente i policy maker a
ripensare le proprie strategie.