La morte di Zapata Tamayo è un buco nero nella “glasnost” di Raul Castro

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La morte di Zapata Tamayo è un buco nero nella “glasnost” di Raul Castro

26 Febbraio 2010

Adesso sono tutti rattristati. La morte di Orlando Zapata Tamayo dopo 83 giorni di sciopero della fame è definita “lamentevole” da Raúl Castro. Dopo che il sistema carcerario del suo regime aveva infierito su questo nero 42enne, idraulico e muratore: facendolo pestare e vessare in tutti i modi; sanzionando le sue ribellioni a queste vessazioni con condanne ulteriori, in modo che i 3 anni che gli avevano dato dopo essere stato arrestato con i 75 dissidenti nella repressione del 2003 erano saliti a 36; infine, quando dopo gli ultimi tre pestaggi il 3 dicembre aveva smesso per protesta di ingerire alimenti solidi, punendolo con 18 giorni di provazione dei liquidi, che gli hanno dato il colpo di grazia. La testimonianza della madre lo descrive in ospedale “pelle e ossa, lo stomaco ridotto a un buco, il peso così ridotto che hanno dovuto mettergli le flebo sul collo, e la schiena piagata per le botte”. 

“Lamento profondamente questa morte”, dice anche il presidente brasiliano Luiz Inácio da Silva Lula. Che un recente film uscito in Brasile mostra da giovane come impavido combattente per la libertà contro lo sfruttamento, ma che a Cuba è venuto ripetutamente soprattutto a fare affari, si parla di oltre un miliardo di dollari in ballo. E che comunque rifiuta sistematicamente di rispondere alle richieste dell’opposizione cubana di fare da mediatore per la liberazione degli almeno 200 prigionieri politici ancora in carcere, di cui una cinquantina di quelli del 2003. “Non ho ricevuto nessuna lettera, e poi è al governo cubano che spetta conversare con i dissidenti”. Appunto: il problema è che non lo fa.
E addirittura incendiario è il primo ministro spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero. Che prima si è scontrato con il resto dell’Unione Europea per chiedere di far cadere le sanzioni seguite alla stretta di vite del 2003, sostenendo che si sarebbe potuto ottenere di più con le buone maniere. E adesso, pungolato dall’opposizione, arriva a chiedere che tutti i detenuti politici cubani siano liberati immediatamente.

Insomma, una grande sagra dell’ipocrisia, per usare le stesse parole dell’attivista per i diritti umani Elizardo Sánchez: “una grande ipocrisia, dal momento che il governo ha avuto 82 giorni di sciopero della fame per cambiare la situazione, e non lo ha fatto”. “Forse non è ben informato sugli abusi che si commettono in continuazione nelle prigioni”. Facile fare dell’ironia, che però forse non permetterebbe di realizzare cosa si stia effettivamente evolvendo. È vero: Raúl Castro sfiora il ridicolo più sinistro, con il suo “lamento”. Però anche un simile commento rappresenta una novità, in un quadro dove era abituale che i dissidenti venissero semplicemente bollati come “mercenari” degli Stati Uniti, e ogni abuso nelle carceri fosse negato con la massima faccia tosta. Naturalmente, Raúl non poteva mancare di dare la colpa “agli americani”, anche se non si capisce a che titolo: è stata la Cia a pagare il povero Zapata Tamayo perché rifiutasse di farsi pestare e si facesse morire di fame? Però ha pure ribadito che lui è pronto a parlare con gli Stati Uniti “di tutto, niente escluso, basta che si rispetti la pari dignità”. Effettivamente, forse potrebbe valere la pena, da parte di Obama, di tentare un vertice per scoprire il bluff.

In realtà, non c’è dubbio che da quando Raúl Castro è al potere qualcosa a Cuba è cambiato.  Ad esempio, ha autorizzato l’autocostruzione delle abitazioni. Ha iniziato a distribuire terre demaniali a contadini che potranno gestirle in regime di coltivatori diretti. Ha liberalizzato la vendita di prodotti elettronici e elettrodomestici. Ha ratificato un paio di patti sui Diritti Economici, Sociali e Culturali dell’Onu. Ha permesso un certo dibattito suio mali del Paese, sia sulla stampa che in tv. Ha perfino liberalizzato l’accesso a Internet, sia pure fuori di casa: da cui il fiorire di blog critici, come quello della famosa Yoani Sánchez. La stessa Sánchez è stata però poi pestata dagli sgherri del regime quando ha provato a organizzare una marcia di protesta, i poliziotti hanno agito con durezza contro la gente scesa in piazza in favore di Zapata Tamayo, e di nuovo la polizia è stata schierata per prevenire agitazioni dopo la sua morte. Se si unisce questo quadro a quello della crescente apertura economica agli imprenditori ad esempio brasiliani, da cui la visita di Lula, la prospettiva è piuttosto quella di una evoluzione alla cinese: nell’economia, ma non nella politica. Con l’avvertenza comunque che anche le riforme economiche fino a quando Fidel sarà vivo saranno in continuo rischio di revoca, da un momento all’altro.

La morte di Zapata Tamayo, a chi ricorda le vicende dell’Unione Sovietica, potrebbe evocare forse quella di Anatoly Marchenko: il dissidente sovietico che il 4 agosto 1986 iniziò uno sciopero della fame per “stanare” l’effettiva intenzione di Gorbaciov di liberare i prigionieri politici, e morì l’8 dicembre. Anche dopo questa tragedia il regime continuò a infierire con ferocia meschina, negando alla vedova un certificato di morte e costringendola a scrivere il suo nome sulla croce della tomba con una penna a sfera. Però, effettivamente dopo la morte di Marchenko Gorbaciov iniziò a fare sul serio sul fronte della glasnost, in quello stesso dicembre 1986 a Andrei Sakharov fu concesso di tornare a Mosca, e ne marzo del 1989 fece in tempo a diventare deputato nelle prime elezioni semi-libere, prima di morire a dicembre. Certo: è un auspicio, più che un’analisi.