La notizia non è il trasloco del G8 ma le risorse stanziate senza alzare le tasse
24 Aprile 2009
Un buon inizio. Dal Consiglio dei Ministri de L’Aquila, che ha approvato il pacchetto di provvedimenti per il dopo-terremoto, giungono notizie tutto sommato positive. Anzitutto, per il finanziamento della ricostruzione non si è ricorso – nonostante la tentazione fosse sicuramente forte – all’inasprimento fiscale: nessun “contributo di solidarietà” sui redditi medio-alti, nessuna addizionale, nessuna accisa sulla benzina o sul tabacco. Troppe volte in passato i contribuenti italiani hanno sperimentato la straordinaria longevità di queste tasse una tantum, nate per un’emergenza e poi consolidatesi fino a divenire parte integrante della fiscalità ordinaria.
D’altronde, anche se la tassazione straordinaria fosse davvero stata una tantum, essa sarebbe stata tremendamente iniqua e illiberale. Fino ad oggi lo Stato si è reso garante dell’intervento a seguito di calamità naturali, fornendo de facto una sorta di assicurazione implicita. Il premio pagato dagli “assicurati”, i cittadini italiani, erano le tasse: se, per finanziare la ricostruzione di un terremoto, lo Stato finisce per imporre nuove gabelle, viola questo contratto assicurativo e costringe i contribuenti a pagare due volte. Se invece vuol tenere fede al vincolo contrattuale, lo Stato ha il dovere di far fronte ai costi con variazioni intra-bilancio (magari senza esagerare con lotterie e giochi vari). Che poi, in un calderone che vale la metà del Pil italiano, non è difficile sottrarre a spese inutili e inefficienti 8 miliardi di euro.
Bene ha fatto il Governo, quindi, ad evitare il ricorso ad una tassazione straordinaria coperta dal manto della solidarietà. Ed altrettanto positivamente va giudicata l’assenza dal decreto-legge della tanto discussa polizza assicurativa anti-calamità. L’implementazione di meccanismi assicurativi in sostituzione del regime di assistenza statale rispetto ai disastri naturali va perseguita, ma i problemi che tali meccanismi provocano nei paesi che li hanno implementati (in primis, gli Stati Uniti) richiedono una valutazione attenta e non guidata dall’emozione del momento. Insomma, è bene che il ministro Brunetta – sponsor numero uno del sistema assicurativo anti-calamità – anteponga un po’ di prudenza all’entusiasmo. Come sottolineo in un focus dell’Istituto Bruno Leoni (“Un contributo di idee per il dopo-terremoto), importare in Italia il meccanismo assicurativo richiede anzitutto che lo Stato limiti al minimo il suo intervento distorsivo delle logiche di mercato.
Se chiediamo alle compagnie assicurative di fare un mestiere che oggi fa lo Stato, dobbiamo accettare che lo facciano “da assicurazioni” e non “da Stato”, anche imponendo forti differenze nei premi pagati da chi vive in una zona a rischio rispetto a chi risiede in luoghi relativamente più sicuri. Sarebbe politicamente accettato o emergerebbe una domanda di “redistribuzione” del valore dei premi tra chi vive a Torino e chi vive alle falde del Vesuvio?
Ancora, l’arbitrarietà con cui lo Stato può dichiarare lo stato di calamità naturale rappresenterebbe un elemento d’incertezza a carico delle compagnie assicurative: non esistono solo i terremoto, vi sono molti eventi naturali il cui stato di “calamità” è nei fatti oggetto di una valutazione discrezionale. E così, se si finisse per prevedere troppi vincoli di redistribuzione dei premi e pagamenti troppo frequenti, un buon sistema diventerebbe un pessimo sistema. E chiameremmo polizza ciò che in realtà sarebbe un’imposta, perché non commisurata al rischio e fuori dal controllo del proprietario immobiliare. Per costruire un sistema autenticamente assicurativo che possa davvero concorrere alla mitigazione del rischio di calamità, e si può fare, vanno evitate soluzioni-bacchetta magica. Una proposta potrebbe essere quella di adottare il modello neozelandese: un’assicurazione pubblica fino ad una certa soglia, al di sopra della quale c’è spazio per un mercato privato della copertura “extra-cap”. Lo Stato rimarrebbe attore fondamentale, ma lo farebbe attraverso un’agenzia costretta a confrontarsi con la gestione oculata del rischio. Alle compagnie assicurative si lascerebbe il loro mestiere, offrire copertura a coloro che volontariamente la chiedessero, alle condizioni dovute e non ad un valore “politico”.
Tornando al decreto aquilano, avremmo preferito che il Governo non condizionasse la concessione degli indennizzi alla ricostruzione dell’immobile distrutto o danneggiato. Non va necessariamente incentivata la ricostruzione: per coloro che lo volessero, dovrebbe essere possibile compiere scelte diverse dalla ricostruzione, quale l’acquisto di un’abitazione già esistente in un luogo diverso, una diversa tipologia di abitazione, l’avvio di un’attività economica. Si chiede troppo? Eppure un’assicurazione – modello verso cui si vuol andare – farebbe esattamente questo, pagherebbe un indennizzo monetario senza vincoli di destinazione.
Il resto del decreto è ciò che si attendeva: progettazione e realizzazione dei prefabbricati, piano di interventi per gli immobili pubblici danneggiati o distrutti, “sospensione” degli obblighi fiscali per individui ed imprese dell’area colpita, concessione generosa di ammortizzatori sociali. Si finirà a parlare di ciò che non si attendeva: lo spostamento del G8 di luglio da La Maddalena a L’Aquila. Una scelta simbolica molto “berlusconiana” e, tutto sommato, perdonabile.