La nuova Europa rinsalda l’asse Parigi-Berlino e tiene fuori l’Italia

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La nuova Europa rinsalda l’asse Parigi-Berlino e tiene fuori l’Italia

20 Novembre 2009

L’Europa finalmente ha un numero di telefono, come ironicamente domandava Kissinger. Viene però da chiedersi se qualcuno desidererà comporlo. All’altro capo troverà la “strana coppia” Van Rompuy-Ashton, l’economista cattolico con ottimi rapporti con il mondo della finanza e la baronessa di sua Maestà con il curriculum diplomatico più stringato del Vecchio Continente: un anno come Commissario al commercio al posto di Lord Mandelson. Servivano quasi dieci anni di tormentati negoziati, referendum, consigli e mediazioni perché la montagna partorisse due topolini?

Il sentimento prevalente, di fronte alle nomine del nuovo Presidente e dell’Alto rappresentante per la politica estera e di difesa, è un misto di stupore ed indignazione. Si era più volte ripetuto che solo una figura forte e carismatica avrebbe avuto una qualche possibilità di riallacciare i legami interrotti (e certificati dall’alto astensionismo alle recenti elezioni europee) tra l’Unione e le opinioni pubbliche nazionali. Finalmente l’Europa avrebbe avuto un volto. Nel 2007  si era parlato di crisi di mezza età per l’Europa unita che entrava nel suo secondo cinquantennio di esistenza. Ebbene il ticket Van Rompuy-Ashton, che non dobbiamo dimenticare viene dopo la debolissima riconferma di Barroso, non fa altro che confermare quanto profonda sia questa crisi.

Ma se si cerca di metabolizzare lo shock e osservare con distacco la situazione, da questa doppia e deludente nomina si possono trarre almeno tre considerazioni.

Innanzitutto l’asse Berlino-Parigi è tornato al centro dell’Europa. Volutamente ho parlato di Berlino-Parigi, perché di questo si tratta. L’asse è tornato, ma a guidarlo è Berlino. La Germania unita è uscita dalla minorità politica dove era stata confinata dopo la tragedia del nazismo ed è finalmente decisa a tramutare il suo gigantismo economico in rilevanza politica, almeno a livello continentale. La Francia arranca, ma con la mossa di Sarkozy l’atlantista è riuscita a rimanere legata alla locomotiva tedesca, per ora si accontenta di guidare il Vecchio Continente in comproprietà e sarebbe difficile ottenere di più. Chi parla della coppia Sarkozy-Merkel come di quelle storiche de Gaulle-Adenauer, Giscard-Schmidt e Mitterrand-Kohl deve però ricordare quanto oramai l’ago della bilancia penda verso Berlino, piuttosto che verso Parigi. L’allargamento a est aveva creato le condizioni geopolitiche per lo scivolamento del baricentro politico dell’Europa. La sentenza della corte di Karlsruhe e la nomina di Buzek alla guida del Parlamento europeo (alla quale succederà tra due anni e mezzo il tedesco Schulz) avevano tratteggiato i contorni del nuovo attivismo europeo della Germania di Merkel. Ora la nomina di Van Rompuy è una vittoria di Berlino. È certamente vero che il belga non dispiace all’inquilino dell’Eliseo, il quale può vantare il successo di aver bruciato l’altro potenziale candidato apprezzato da Merkel, il lussemburghese Juncker. Ma non bisogna dimenticare che Sarkozy era stato il più grande sponsor di Tony Blair, una candidatura lentamente ma costantemente distrutta proprio da Merkel. Van Rompuy inoltre significa trionfo dell’asse Berlino-Parigi per almeno altri tre motivi: garantisce un freno all’ingresso della Turchia (come vogliono Merkel e Sarkozy), apre le porte alla conquista da parte di Berlino della guida della Bce (in scadenza tra due anni) e a quella di Parigi dell’agognato commissario al mercato interno e ai servizi finanziari.

Proprio questo dato conduce alla seconda importante riflessione: il ruolo di Londra. Brown si è presentato a Bruxelles difendendo strenuamente il suo “candidato impossibile” alla presidenza del Consiglio europeo, Tony Blair. Oramai persuaso che l’ex premier laburista fosse solo un candidato di bandiera, e altresì certo che Parigi non avrebbe accettato per altri cinque anni un anglosassone alla guida del dicastero del commercio interno e dei servizi finanziari (quello uscente è il liberale irlandese McCreevy), Brown ha ottenuto il massimo, cioè l’Alto rappresentante per la politica estera e di difesa. Ha cioè certificato che l’asse Berlino-Parigi si può trasformare, perlomeno sulle questioni diplomatiche, in un direttorio a tre. Ha però allo stesso modo confermato che il peso specifico di Berlino e Parigi oggi è molto maggiore rispetto a quello di Londra. Infatti non è riuscito ad imporre per quella poltrona un candidato autorevole, come sarebbe stato Miliband (il quale avrebbe certamente oscurato Van Rompuy), si è dovuto accontentare dell’illustre sconosciuta Ashton, peraltro circondata da un capo servizio diplomatico tedesco (mentre l’angelo custode di Van Rompuy sarà un francese, alla guida del potente segretariato del Consiglio europeo).

Infine il terzo e ultimo punto e cioè le note dolenti per il nostro Paese. L’Italia esce doppiamente sconfitta da questo giro di nomine. Il fallimento della candidatura D’Alema, (che in ogni caso non sarebbe stata una candidatura di peso, occorre ricordarlo), testimonia la scarsa rilevanza del sistema Paese a livello di Capi di Stato e di governo (poco conta se a guidare l’esecutivo sia il centro-destra o il centro-sinistra): non siamo nell’asse, non siamo nel direttorio, questo è risaputo, ma abbiamo anche pochi rapporti a est (quanto è apprezzata la nostra entente cordiale con il Cremlino?) e non siamo stati in grado di coalizzare un’ipotetica area mediterranea. Peraltro la mancata elezione di Mauro alla guida dell’Europarlamento aveva già certificato questo vuoto italiano a livello europeo. Il secondo dato è più politico e testimonia le gravi difficoltà nazionali anche all’interno dei due principali gruppi politici europei. Pur potendo contare su un numero di parlamentari popolari e socialisti secondo solo alla Germania, ancora una volta a tirare le fila sono un francese (Daul, il capogruppo popolare) e un tedesco (il socialdemocratico Schulz). Non è un caso quindi che la candidatura D’Alema sia morta proprio per il “fuoco amico” proveniente da ciò che resta del socialismo europeo.

Circa un mese fa, Jacques Delors prendeva posizione per un Presidente del Consiglio europeo che avrebbe dovuto essere un chairman e non un executive president. L’ex presidente della Commissione con queste parole rappresentava bene l’illusione di chi ha pensato di porre come argine all’Europa intergovernativa il rimpianto dell’Europa comunitaria. Il risultato: Commissione, Presidenza del Consiglio e Capo della diplomazia di una debolezza quasi imbarazzante.

Il numero al quale faceva riferimento Kissinger è arrivato, la delusione per la scelta dei “centralinisti” può difficilmente essere celata. L’unica speranza? Che il tempo smentisca l’odierno pessimismo.