La palude afghana e il futuro del mondo (di G. Quagliariello)
29 Agosto 2021
La definizione dell’Afghanistan come “tomba degli imperi”, suffragata da corsi e ricorsi storici che gli eventi di queste settimane sembrano con ogni evidenza confermare, non è certo un buon motivo per restare inermi rispetto a ciò che accade in quell’angolo di mondo. Soprattutto, come è stato per l’intervento militare iniziato nel 2001, se quell’angolo di mondo diviene la base di organizzazioni terroristiche internazionali e piattaforma logistica per un attacco senza precedenti nei confronti dell’Occidente.
La stessa definizione, tuttavia, dovrebbe indurre a riflettere su quale sommatoria di errori abbia determinato l’esito al quale stiamo assistendo, un’onta e un oggettivo fallimento.
Il ragionamento non può che ruotare attorno a tre variabili: le cause che hanno determinato l’intervento; la strategia di questi vent’anni; gli obiettivi politici perseguiti.
La validità delle ragioni della campagna d’Afghanistan è indiscussa e, anzi, esce corroborata da ciò che sta accadendo in concomitanza con il precipitoso e poco onorevole ritiro dei contingenti occidentali. Nelle analisi di questi giorni colpisce la rimozione di ciò che è stato l’11 settembre 2001, del ruolo giocato da quel Paese rispetto alla preparazione degli attentati e alla gestione della rete di Al Qaeda, della necessità di una risposta adeguata all’attacco subìto. E il fatto che il convitato di pietra di qualsiasi riflessione che ambisca ad avere una minima aderenza alla realtà sia la minaccia del terrorismo islamico trova conferma nel sangue che continua a essere versato a Kabul e del nuovo allarme che incombe sull’Occidente.
Una volta ricordato ai tanti smemorati cosa ci abbia spinto vent’anni fa in quei territori che già avevano visto il fallimento di imperi come quello britannico e quello sovietico, teatro per gran parte dell’Ottocento di una guerra senza tregua per il controllo dell’Asia centrale, è il caso di interrogarsi cosa la coalizione a guida americana abbia combinato nel frattempo. E qui veniamo ai punti dolenti: la strategia e gli obiettivi politici.
Letture classiche come “Il Grande Gioco” di Peter Hopkirk, o più contingenti come le riflessioni di Henry Kissinger pubblicate in questi giorni in Italia dal Corriere della Sera e l’analisi di Paolo Romani proposta qui sull’Occidentale, aiutano a comprendere la complessità di quell’area e il perché in più di un’occasione essa abbia visto declinare i potenti della Terra. Il fatto è che di quella complessità si sarebbe dovuto tener conto, invece di combinare una strategia militare schizofrenica e obiettivi politici velleitari come quello del subitaneo insediamento di un ordinamento statale democratico, moderno, unitario da un confine all’altro a dispetto di etnie e divisioni più radicate di qualsiasi identità nazionale.
E’ ciò che accade quando, come hanno fatto gli Stati Uniti negli ultimi anni, ci si allontana da quella realpolitik che sola può ispirare strategie militari efficaci e obiettivi politici raggiungibili. Tutto questo, non dimentichiamolo, in un contesto come quello americano nel quale a dettare le regole è l’opinione pubblica, oggi come in passato. E in presenza di una propensione isolazionista, ispirata alla dottrina Monroe, che nei tornanti della storia torna a farsi sentire. Lo si è constatato in occasione di entrambe le guerre mondiali, che videro gli USA scendere in campo solo nel momento nel quale sono stati toccati i loro interessi (Roosvelt avrebbe voluto attaccare Hitler fin da subito, ma lo fece solo dopo Pearl Harbor). Ed è stato così anche con l’Afghanistan, rispetto al quale dopo vent’anni e una prospettiva non chiara era inevitabile che la pressione dell’opinione pubblica si facesse sentire.
Questo è il motivo per cui, al netto delle modalità del ritiro che gridano oggettivamente vendetta, la direttrice di fondo ha connotati piuttosto trasversali: oggi nella polvere c’è Joe Biden, ma sono già tre i cicli elettorali che Oltreoceano vengono pesantemente condizionati dal tema del ritiro dell’Occidente dai conflitti mediorientali. E non è un caso che il disimpegno dall’Afghanistan sia cominciato con Obama, proseguito con Trump e con gli accordi di Doha, e giunto a compimento (assai malamente) sotto l’attuale amministrazione.
Nella fase complicatissima che si è aperta è indispensabile il coinvolgimento dei principali attori internazionali, obiettivo che Mario Draghi – valorizzando la presidenza italiana del G20 – sembra perseguire con autorevolezza e lungimiranza. L’abdicazione dell’Occidente dal suo ruolo di “faro di civiltà”, “gendarme del mondo”, “avanguardia di sviluppo”, sta già lasciando uno spazio incredibile a potenze arrembanti come la Cina e storiche come la Russia. In Afghanistan questa dinamica potrebbe trovare il suo coronamento, se non ci si preoccuperà di non far seguire al ritiro militare un vuoto pneumatico e di costruire una connessione con i succitati Paesi, ai quali per contiguità geografica va aggiunta l’India, in nome della comune esigenza di difendersi dalla minaccia terroristica.
In politica, e a maggior ragione in geopolitica, il vuoto viene riempito. E’ bene non dimenticarlo mai.