La parabola giovanile di Giuseppe Dossetti
05 Agosto 2007
Di Dossetti si continua a parlare nel dibattito politico-culturale italiano: negli ultimi mesi lo si è evocato a proposito di quei politici cattolici che hanno preso polemicamente le distanze dalla gerarchia ecclesiastica a causa dei cosiddetti Dico e che ora si apprestano a confluire nel nuovo Partito democratico; o ripercorrendo la vita di uno dei maggiori intellettuali di quell’area, lo storico Giuseppe Alberigo, in occasione della sua scomparsa. Non è facile valutare compiutamente la liceità di tali accostamenti, cioè il rapporto vero che intercorre fra Dossetti e il vario “dossettismo”: resta il fatto che la figura del monaco reggiano è stata un vero e proprio «mito» per più generazioni di intellettuali e politici cattolici, che ne hanno attentamente raccolto ogni parola e vagliato e riflettuto ogni intervento. Col passare del tempo – credo che lo si possa dire – emerge sempre di più lo spessore eminentemente religioso della sua personalità: è vero che Dossetti è stato un esponente di punta della DC del dopoguerra, che ha dato un contributo importantissimo all’elaborazione della carta costituzionale e fondato una “corrente” da cui sono usciti alcuni dei “cavalli di razza” del mondo democristiano, ma egli appartiene soprattutto a quella che Raffaele Pettazzoni chiamò l’Italia religiosa, la storia, cioè, della spiritualità e della cultura religiosa del nostro paese. Per molti versi, fu un vero e proprio riformatore religioso, che venne maturando un progetto di radicale riforma della Chiesa, in vista del quale lavorò con un’attività instancabile (e indubbia capacità di manovra) nell’ultimo quarantennio della sua vita. Le origini di questa personalità d’eccezione ci sono ora restituite da Il giovane Dossetti. Gli anni della formazione 1913-1939, pubblicato alla fine dell’anno scorso dal Mulino, opera seconda di Enrico Galavotti, giovane ricercatore dell’Istituto per le scienze religiose di Bologna: un volume scritto con sobrietà ed equilibrio e che, pur attraverso una scrittura quasi cronachistica, fornisce non pochi spunti di riflessione anche su questioni più generali.
Una delle fonti principali del lavoro di Galavotti sono le innumerevoli testimonianze autobiografiche, di cui lo stesso Dossetti era solito costellare – specie negli ultimi anni – scritti e discorsi, e la sua intervista del 1984 (ma pubblicata nel 2003) a Pietro Scoppola e Leopoldo Elia: si tratta di un materiale che lo storico deve maneggiare con cautela e quanto meno verificare puntualmente. Tutte le volte che gli è possibile, Galavotti lo fa con grande cura e, qua e là, anche con qualche virtuosismo erudito: col risultato, talvolta, di inserire varianti significative nella memoria dossettiana, anche se poi finisce per accettare quasi sempre il quadro complessivo offerto dallo stesso Dossetti.
Vorrei portare due esempi che mi sembrano particolarmente interessanti: nell’intervista a Elia e a Scoppola, Dossetti ebbe a definire il padre Luigi fondamentalmente «apolitico». Anche suo fratello Ermanno ne avrebbe ricordato lo scarso interesse per la politica e la tardiva iscrizione al PNF. Galavotti documenta invece (p. 85) come la data della sua iscrizione sia stata molto precoce e risalga al 1° gennaio 1925, a un periodo, cioè, in cui la tessera fascista non era ancora la «tessera del pane». Si tratta di una notazione che andava approfondita: a meno che non si sia trattato di una di quelle retrodatazioni, che talora venivano accordate per meriti speciali, il padre di Dossetti si iscrisse al fascio nella seconda metà del 1924, cioè nei mesi dell’affaire Matteotti. La notizia non va enfatizzata, ma forse un qualche significato ce l’ha, visto anche il contesto in cui la famiglia Dossetti stava vivendo quegli anni cruciali. Dal 1913, essa abitava infatti a Cavriago, uno dei centri agricoli del Reggiano dove più drammatiche saranno le lotte sociali e politiche del dopoguerra: qualche anno fa si tornò a parlarne per il busto di Lenin che ancora campeggia nella piazza centrale del paese (l’unico – si disse – presente in Europa occidentale), ma il rapporto col capo della rivoluzione d’Ottobre risaliva al gennaio 1919, quando il locale Circolo socialista aveva mandato all’«Avanti!» un proclama di plauso agli «Spartachiani di Germania e ai Sovietisti russi», proclama citato dallo stesso Lenin per ben due volte in importanti interventi ufficiali (p. 42). In quel paese, Luigi Dossetti, figlio di un militare, volontario (a 35 anni) nella prima guerra mondiale (p. 30) e che – come i figli ricordano – avrebbe dato contenuti eminentemente patriottici alla loro educazione, era il farmacista, cioè apparteneva al ristretto gruppo delle famiglie «borghesi»: in più la moglie Ines era una cattolica molto impegnata nelle attività parrocchiali e assistenziali. Tutto ciò – osserva eufemisticamente Galavotti – «non mancava di attirare anche qualche forma di ostilità» (p. 32) su di lui.
Non è invece eccessivo ipotizzare che per il farmacista di Cavriago e per la sua famiglia, gli anni del dopoguerra siano stati assai duri: non credo abbia potuto girare per il paese indossando la sua divisa o festeggiare gli anniversari della vittoria o vedere sventolare dagli edifici pubblici la bandiera nazionale nei giorni di festa. Se non si comprende fino in fondo la forza di questa enorme pressione sociale esercitata per anni su proprietari (i Dossetti possedevano anche un piccolo podere), professionisti, borghesi grandi e piccoli, preti e uomini delle forze dell’ordine, si rischia di non intendere fino in fondo la reazione fascista che si sviluppò nel 1921 in quelle zone e il largo consenso da cui fu circondata. Questa è stata una delle principali acquisizioni dell’opera di Angelo Tasca su “Nascita e avvento del fascismo” che risale al 1938: si tende oggi a ridimensionarla, anzi a dimenticarla, riducendo il fascismo del 1921 a un fenomeno di violenza antropologica o di delinquenza politica al soldo degli agrari (fu anche questo, ma non fu solo o prevalentemente questo). Il prefetto di Reggio confidava al socialista Giovanni Zibordi di aver chiesto conto ai funzionari di P. S. e ai carabinieri dello scarso zelo posto nel contrastare le violenze squadristiche: un commissario gli aveva risposto: «Quando c’è conflitto tra sentimento e dovere, non bisogna meravigliarsi di ciò che accade» (p. 47). C’è da chiedersi verso quale parte si indirizzasse il «sentimento» prevalente in casa Dossetti o, almeno, nel capofamiglia (ma anche nel suocero Ettore Ligabue, vecchio moderato ormai rallié al fascismo): l’iscrizione al PNF, proprio nel periodo in cui molti se ne allontanavano, ne costituisce – mi sembra – un indizio significativo.
Negli ultimi decenni, Dossetti faceva risalire al 1929, l’anno della Conciliazione, la nascita del proprio sentimento di «profonda ripugnanza» (p. 59) verso il fascismo, rafforzato poi dal conflitto del 1931 fra la s. Sede e il regime a proposito dell’Azione Cattolica. Galavotti documenta, invece, una sua non sporadica attività all’interno del GUF reggiano durante e dopo i suoi anni universitari (1930-1934), quando tenne conferenze sull’«originalità del fascismo», su «esperimento bolscevico e rinnovamento fascista», sulla «limitazione della libertà individuale in rapporto alle esigenze di vita dell’ordine sociale», etc.: ancora nel maggio 1937 veniva indicato come uno degli «oratori abituali» usati dai Fasci giovanili, dall’ON Balilla e soprattutto dal locale Istituto di cultura fascista (pp. 85-92). Anche qui niente di straordinario: erano pratiche diffuse, a cui gli studenti più brillanti erano quasi naturalmente indotti dal condizionamento ambientale e dallo sfondo culturale in cui erano immersi, insomma dallo Zeitgeist, a cui difficilmente ci si poteva e ci si può sottrarre (a meno che non si abbiano potenti antidoti familiari, culturali, religiosi): ed è difficile, e anche un po’ ozioso, cercare di stabilire se lo facessero per intima convinzione o per un’inevitabile “dissimulazione onesta”. Quelle furono le forme di sociabilità politica di quella generazione, quelle le sedi del loro impegno politico-culturale, quelli i temi delle loro discussioni.
Da parte di Dossetti, non si sarà trattato – come sostiene ancora Galavotti – di «un vero e proprio impegno politico a sostegno della causa nazionale o del regime» (p. 227), quale si ebbe in altri giovani esponenti del cattolicesimo italiano di allora, ma questi e altri episodi narrati nel libro testimoniano del suo pieno inserimento nelle vicende della sua generazione. Vicende che non possono essere lette e, soprattutto, comprese, applicando loro meccanicamente il cleavage fascismo/antifascismo, come talora – a distanza di anni e in un contesto tutto diverso – tesero a fare non pochi reduci da quel “lungo viaggio” (fra cui lo stesso Dossetti), influenzando poi le successive ricostruzioni. La scoperta della politica e la maturazione di un’esplicita scelta antifascista avverrà per lui – in sintonia anche in questo con processi più generali al di fuori e all’interno del mondo cattolico – dopo il 1938, più precisamente fra il 1939 e il 1940.
Ho parlato di «scoperta della politica», perché la vera linea portante della sua esistenza fino alla fine di quel decennio fu il complesso impegno religioso. Egli mutuò la sua intensa religiosità dalla madre: fenomeno interessante di psicologia religiosa, che si ritrova in molte esperienze analoghe, fuori del cattolicesimo (basti pensare al rapporto fra Giuseppe e Maria Mazzini) e dentro (p.e., la vicenda di Giulio Salvadori). E’ notevole che fra le varie opzioni organizzative che si aprivano allora di fronte a un giovane studente universitario cattolico, egli abbia scelto la militanza nell’Azione Cattolica, piuttosto che nella FUCI, da lui avvertita come un movimento sostanzialmente elitario e avulso dalla realtà sociale (pp. 162-163). Questa “separatezza” – una consolidata tradizione storiografica l’ha messo in evidenza – costituiva anche una difesa rispetto all’invadenza di tematiche e impostazioni del regime, ma Dossetti preferì restare un giovane cattolico come gli altri e impegnarsi nelle organizzazioni di base dell’A.C. Il libro ci conduce così nella vita quotidiana di queste organizzazioni protette dall’art. 43 del recente Concordato, ma oggetto di una pressione costante da parte di Mussolini e del regime, che ne avvertivano la irriducibile alterità. Specialmente dopo i contrasti del 1931, fu rafforzato il controllo da parte dei vescovi, che cominciarono a nominarne direttamente i vertici diocesani (ma quello di Reggio Emilia, come fecero molti altri, confermò sostanzialmente l’organigramma precedente lo scioglimento), raccomandando continuamente di non allontanarsi da un contenuto strettamente religioso, anche per non prestare il fianco a nuove accuse e a nuove intimidazioni.
Restano tuttavia impressionanti le dimensioni di queste organizzazioni non fasciste e la gamma dei loro interventi assistenziali, culturali, religiosi. L’oratorio di San Rocco, rilanciato nel cuore di Reggio Emilia (in una città, quindi, in cui la presenza cattolica era assolutamente minoritaria) da don Dino Torreggiani e in cui Dossetti trascorreva allora gran parte delle sue giornate, quando non si recava all’università a Bologna, passò dai 509 iscritti del 1930 ai 1.202 del 1934: si occupava di studenti, soldati, operai, organizzava esercizi spirituali e ospitava una bibliotechina. Aprì anche il primo cinematografo della città: durante le affollatissime proiezioni (sembra di assistere al Nuovo cinema Paradiso di Tornatore) «don Dino… al fatidico bacio metteva la mano davanti all’obiettivo (provocando una salve di fischi formidabili)» (p. 113). Don Torreggiani – Galavotti lo avverte (p. 109) – aveva qualche simpatia per il regime e quindi la sua attività non può essere letta in chiave alternativa o concorrenziale verso il fascismo: ma, insomma, pur vivendo anch’esse all’interno del paese Italia e risentendo quindi fortemente delle sollecitazioni che derivavano dal contesto e spesso progressivamente arretrando – volenti o nolenti – rispetto ai propositi originari, queste organizzazioni non furono mai completamente fascistizzate e restarono sempre qualcosa d’altro rispetto a un regime di cui si veniva sempre più sviluppando la volontà “totalitaria”.
Dossetti si laureò in diritto ecclesiastico nel novembre 1934. Nel dicembre successivo si trasferiva a Milano, iscritto al corso di perfezionamento in diritto romano dell’Università Cattolica: in questo ambiente sarebbe poi vissuto per quasi un decennio, come assistente alla cattedra di diritto canonico e impegnato in non poche delle attività scientifiche e religiose intraprese dal padre Gemelli, che gli mostrò sempre grande fiducia e benevolenza. Galavotti analizza minutamente i vari aspetti dell’operosità dossettiana di questi anni, soprattutto si ferma sul germinare delle sue idee intorno alle associazioni di laici consacrati a Dio nel mondo, in cui sono presenti idee ed esperienze gemelliane (i Missionari della regalità di Cristo), ma anche intuizioni e propositi nuovi che poi Dossetti avrebbe ripresi e sviluppati molti anni dopo. Queste pagine delineano un’immagine dell’Università Cattolica degli ultimi anni Trenta meno unilaterale di quella consueta in molte trattazioni correnti, nelle quali Gemelli e il suo mondo fungono un po’ da polo negativo, a petto di altri ambienti cattolici (soprattutto i gruppi intellettuali, la FUCI e il Movimento Laureati), di cui vengono sottolineati il sostanziale afascismo e le intuizioni dense di futuro. Riprendendo un giudizio di Lazzati, Galavotti nota invece come la Cattolica fosse un po’ un «contenitore» in cui si potevano incontrare intellettuali organici al corporativismo fascista come Fanfani, ma anche firmatari del Manifesto Croce come Vincenzo del Giudice, e apertamente ostili all’antisemitismo nazista e all’alleanza italo-germanica come Orio Giacchi (Giacchi e Del Giudice, fra l’altro, furono proprio i docenti con cui il giovane Dossetti collaborò più strettamente).
Nella parabola giovanile di Dossetti, possiamo quindi individuare percorsi consueti nei suoi coetanei (cattolici e non), e note originali e inconfondibili. Galavotti conclude che la sua fu una «formazione aperta», nel senso che non esaurì tutto il Dossetti maturo, il quale invece continuò a “formarsi” anche nei decenni della maturità e della vecchiaia. Ma questo – bisogna aggiungere – è proprio di tutte le persone che cercano di darsi conto della propria esistenza e dei propri tempi.