“La pelle che abito” di Almodóvar è un buco nero nichilista e relativista
02 Ottobre 2011
Volete una testimonianza visiva dell’abisso nichilista nel quale è sprofondata la cultura europea? Andate a vedere il nuovo film di Pedro Almodóvar “La pelle che abito”. Difficile trovarne una definizione sintetica appropriata. Un incubo? Un grido lancinante? Una perversione? Un atto osceno o oscuro?
Solo nel Novecento il marchese De Sade è potuto diventare un classico. E proprio nel Novecento, in particolare nella seconda metà, il cinema (ma più in generale le manifestazioni artistiche) s’è messo al lavoro per scardinare, sbriciolare, triturare ogni residuo di umanesimo. Tornando al film di Almodóvar, allora, cosa diciamo? È il marchese De Sade in versione patinata. La filosofia e la scrittura del negativo che divorano quel poco che ancora resta in vita del senso etico della cultura occidentale. Si dirà: ma vi accorgete soltanto oggi della carica eversiva, malata di crudeltà, di Pedro Almodóvar? Chiaro che no. Trasgressivo, irridente, talvolta raccapricciante, il regista della Mancia lo è sempre stato, sin dagli esordi, concomitanti con la fine del franchismo e la «movida madrilena». Cioè nell’epocale giro di boa tra la fine degli anni Settanta e il cominciamento del decennio successivo. La Spagna in quel frangente stava diventando il centro irriverente e vitalista della cultura occidentale. E le notti di Madrid il centro del centro. E il cinema scarrucolato, squinternato e stravaccato di Pedro Almodóvar, l’ennesimo centro, il cuore pulsante madrileno dell’ultima delle avanguardia europee, la punta più acuminata di un esercito di cannibali, assetati di carne umana, decisi a oltrepassare ogni limite, servendosi di armi esteticamente povere quanto dissacranti. Lo spirito della «movida» si esprimeva nella liberazione e nel progetto di emancipazione dell’individuo (dal potere, dalla religione, dal patriarcato, dalle gabbie imposte dalla sessualità). E l’opera cinematografica di Pedro Almodóvar ha rappresentato la polveriera del cambiamento.
Il cinema, occorre sempre tenerlo ben presente, non può essere considerato una finestra aperta sul mondo. Certo propone un’interpretazione del mondo, è parte integrante dell’industria culturale e anche il riflesso di una stagione e di un luogo fisico specifico. L’immaginario collettivo si modella, cresce, si modifica attraverso il cinema. Quindi i film finiscono per diventare preziosi indicatori della mentalità e dell’ideologia. Almodóvar è stato il sismografo della corsa sfrenata spagnola, dal franchismo alla desocializzazione. La fama raggiunta, le qualità estetiche conseguite e sensibilmente migliorate rispetto alle ingenuità degli esordi, la certezza di poter contare su una ricezione internazionale, la comodità economica delle produzioni, tutto questo con il trascorrere del tempo avrebbe potuto condurre il regista spagnolo a ben altri esiti. Invece siamo arrivati al buco nero di “La pelle che abito”.
Ecco la storia in sintesi, ridotta davvero all’osso, priva di importanti passaggi. Un chirurgo plastico di successo (Antonio Banderas) perde la moglie in un incidente. La donna muore carbonizzata. Il fuoco le ha divorato completamente la pelle. Da quel momento lo scienziato infonde ogni energia in una missione-ossessione: sperimentare su un corpo umano un nuovo tessuto (umano), perfettamente compatibile. Ma i guai per il chirurgo non finiscono qui. Sua figlia viene violentata. La reazione del chirurgo è spietata. Individuato e segregato nella propria dimora-castello-laboratorio-prigione il responsabile della violenza, e avendo comunque bisogno di una cavia per gli esperimenti, lo trasforma da uomo in donna. La reincarnazione del freddo barone Frankenstein, compie un miracolo perfetto: dà vita ad una creatura nuova. Fin qui l’aberrazione si è spinta già abbastanza avanti. Ma il passo finale è davvero imprevedibile. Il creatore si innamora della sua opera d’arte umana, in lui scatta il desiderio irrefrenabile di possederla sessualmente. Il marchese De Sade avrebbe trovato logica e dunque approvato questa conclusione.
Storia incredibile di sadismo e perversione, violenza e malessere esistenziale, follia e disgusto. Eppure un tema così scabroso ha trovato spazio in telegiornali e talk show fra i più seguiti. Ovviamente nessuno ha detto di che cosa si stava veramente parlando. Riferimenti vaghi: un film d’autore, un classico, un’opera complessa, l’ennesima dimostrazione di un grande regista, la prova di un grande attore. Sulla carta stampata invece sono state sollevate numerose perplessità, perlopiù ricolme di delusione. Almodóvar una volta faceva film migliori. E poi che noia: dove sono finite l’allegria dei travestiti e l’esuberanza di ragazze e donne sempre al bordo di un attacco nervoso?
Tralasciamo i simulacri, la debolezza del pensiero, la crisi dei fondamenti e altra simile robaccia postmoderna. Concentriamoci solo su un punto, però essenziale. Ormai l’espressione (o se volete l’arte) cinematografica non riconosce nessun limite, nessun vincolo etico. L’individualismo ha ucciso la persona. L’ha ingabbiata, costretta in una nuova pelle. Ma il risultato finale è una catastrofe. La cultura occidentale, sprofondata nel relativismo etico, è in agonia. La stessa lucida agonia che si respira in ogni fotogramma di “La pelle che abito” di Pedro Almodóvar.