La pellicola va in pensione e la macchina da scrivere ha le ore contate
15 Maggio 2011
Chissà qual è stato l’orizzonte che si spalancato di fronte al sapiente obiettivo di Steve McCurry al momento di marchiare in modo indelebile l’ultima pagina di storia della fotografia analogica. Paul Simon non ebbe forse la lungimiranza di prevedere ciò che sarebbe successo solo qualche mese fa, così dedicò alla Kodachrome, celebre pellicola fotografica, una spassionata dedica d’amore nel linguaggio più espressivo, la musica.
Fatto sta che agli albori di questo 2011 un negozio pressoché sconosciuto, il Dwayne’s Photo di San Francisco, ha chiuso i battenti portandosi via una fetta di storia moderna. Rimaneva infatti, in tutta la circonferenza terrestre, l’ultimo laboratorio in grado di lavorare sulla Kodachrome, baluardo più emblematico di memorabili fotografie. "Kodachrome non è stata solo una pellicola, ma una vera icona di un’epoca: la prima pellicola a colori accessibile a tutti", ricorda amareggiato Todd Gustavson, che dirige un museo proprio nella ex abitazione del creatore dell’impero Kodak.
L’ultimo rullino della Eastman Kodak fu prodotto nel 2009 e venne affidato alle cure del semi-dio Steve McCurry, fotografo passato alla storia per la copertina di National Geographic del giugno 1985. Afghanistan, la ragazza dai grandi occhi verdi: il simbolo della fotografia come impegno sociale. Gli scatti di McCurry sull’ultima pellicola invertibile Kodachrome non sono stati mai pubblicati (ma obbligatoriamente sviluppati, data la chiusura dello stabilimento a San Francisco). Con il Dwayne’s Photo si è chiusa simbolicamente un’era, quella della vera fotografia e dell’impareggiabile qualità mistica della pellicola che in tanti, cinema compreso, scelsero per i propri lavori.
Poteva già sembrare abbastanza. Ma per uno strano effetto domino causato dall’indiscriminato processo tecnologico, anche un oggetto di indicibile fascino come la macchina da scrivere ha le ore contate. La storia tende a ripetersi sempre con un certo cinismo, riservando alla ‘typewriter’ un destino analogo, condito da ingredienti romanzeschi e giusto un po’ romantici. C’è l’India, che senza che nessuno se ne accorgesse, deve aver raccolto il testimone della cultura di stampo europeo resistendo fino all’ultimo istante nella produzione di macchine da scrivere. C’è un oggetto di culto e divenuto ormai vintage che ha messo nero su bianco i più grandi capolavori letterari di sempre, da Fiesta di Hemingway al Tom Sawyer di Mark Twain. E come ogni storia che si rispetti, alla fine c’è un addio. Meglio ancora se doloroso.
Le nuove leve di scrittori e giornalisti, conosceranno nella loro carriera soltanto "il computer, uno straordinario strumento artigianale" ma decisamente anonimo, talmente anonimo da consentire di "schiacciare un tasto ed annullare tutto". Sì, perchè ormai il salto l’hanno fatto quasi tutti e l’eroica "Godrej & Boyce" con sede a Mumbai, l’ultima al mondo a produrre macchine da scrivere, si è dovuta arrendere sotto il fuoco amico/nemico (dipende dai punti di vista) di computer e tablet.
Ancora una volta l’umana furia avveniristica di digitalizzare l’esistenza ha avuto la meglio, relegando una macchinetta storica ai mercatini domenicali dove pochi oseranno prenderla in mano, spolverarle i tasti morti, scoprire la sua storia, ed infine passerà oltre.
Sul web, invece, si sono scatenati, come prevedibile, i ricordi nostalgici che accompagnano la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra che non sarà forse poi così all’altezza di quella appena conclusa. Su Twitter migliaia di utenti da tutto il mondo hanno raccolto tramite l’hashtag #typewriter splendide testimonianze, lasciando intuire come la macchina da scrivere avrà uno spazio non marginale nell’immaginario collettivo del futuro. Una vera e propria epidemia ha invece colpito il portale fotografico numero uno al mondo, Flickr, che è stato immediatamente invaso di immagini con vecchie Smith Corona, Underwood e Remington riesumate chissà da dove.
Non tutti, però, hanno definitivamente abbandonato la macchina da scrivere. Tra i professionisti della scrittura qualcuno non ha voluto saperne di rinunciare al ticchettìo ritmato dei tasti. Una specie in via d’estinzione. "Scrivo a macchina con crescenti errori di battuta: è una macchina tedesca che si chiama Monika, l’ho comprata a Roma 35-40 anni fa. Mi piace, mi appartiene e sono contento così, anche se perde colpi e una nuova non si trova di certo", confessa lo scrittore di Andezeno, Guido Ceronetti, che in un’intervista al Corriere della Sera ha ribadito l’amore incondizionato verso la propria macchina da scrivere. Per altri letterati, Sebastiano Vassalli su tutti, ricopiare dal quaderno alla macchina è un rituale d’obbligo per la buona riuscita di uno scritto: "I miei romanzi li ho sempre scritti a mano su quaderni e poi ricopiati a macchina: la ricopiatura mi dà il tempo di riflettere sulle piccole cose, che poi non sono affatto piccole. In realtà è una nuova stesura che quelli che lavorano al computer si perdono".
Pochi sanno che il 2011 è anche una data di grande significato simbolico. Proprio quest’anno, infatti, ricorre un anniversario tutto italiano: il celebre marchio Olivetti festeggerà il centenario del modello M1 del 1911, il primo dell’azienda che negli anni ’50 produrrà la celebre Lettera 22, compagna fedelissima e irrinunciabile per due padri del giornalismo come Indro Montanelli ed Enzo Biagi.
E se i vivi si dolgono (Vassalli: "Alla notizia della chiusura dell’ultima fabbrica mancava poco che mi mettessi a piangere") non ci è dato di sapere il parere dei morti. Bukowski avrebbe usato il pretesto per stappare l’ennesima bottiglia di birra? Hemingway per spararsi un secondo colpo in testa con il fucile da caccia? L’unico dubbio che rimane è che non sapremo mai con sicurezza se sia giusto dire macchina da scrivere o macchina per scrivere. Perchè il resto, bene o male, è una certezza.